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Tanto nella nostra vita domestica quanto nel mondo “la fuori”, quello cosiddetto naturale, sono tutto sommato una netta minoranza i materiali chimicamente puri sui quali ci può capitare di mettere le mani. Non sto parlando di purezza nel senso si assenza di contaminazioni ed impurità: in questo contesto con l’espressione puro intendo semplicemente parlare di sostanze chimiche singole, non in mescolate con altre.
In effetti tanto nel mondo biologico quanto in quello minerale, giusto per citare i due grandi filoni di appartenenza della materia non trasformata dall’uomo, quanto nel mondo dei prodotti sintetizzati o per lo meno “assemblati” dall’uomo, quello che si riscontra nella stragrande maggioranza dei casi sono soluzioni a più componenti, miscugli di sostanze fra loro immiscibili o, nei casi più complessi, addirittura compartimentazioni di miscele a loro volta complesse e spesso potenzialmente capaci di reagire le une con le altre, come capita nel caso-limite dell’organizzazione della cellula.
Nel mondo minerale i materiali in assoluto più diffusi sono certamente le rocce, che possono essere in qualche modo descritte come aggregati eterogenei, in pratica miscugli di sostanze chimiche virtualmente pure, i minerali appunto, che formano aggregati solidi di tipo cristallino, strettamente coesi gli uni con gli altri (vedasi gli esempi delle diverse qualità, dovute a differenti composizioni dei loro minerali costituenti, dei graniti riportati in figura).
All’origine, perdonatemi il termine, quasi “filosofica” di questa tendenza diffusa vi sono presumibilmente ragioni di natura entropica, quelle che detto banalmente fanno sì che ogni sostanza occupi al meglio l’intero spazio ad essa disponibile, solo in parte contrastate dal guadagno in termini di entalpia raggiunto qualora una specie chimica riesca ad esempio a cristallizzare in forma pura. Nel campo biologico, ovvero nella
stessa organizzazione cellulare, la compartimentazione alla quale si assiste, ad esempio in organuli o su membrane, con conseguente concentrazione di sostanze in contrasto con la loro naturale tendenza delle stesse sostanze ad espandersi e miscelarsi in una sorta di frullato uniforme, è realizzato a mantenuto a scapito di un consumo energetico da parte dell’essere vivente al quale la cellula appartiene, energia che deve essere introdotta dall’esterno ad esempio tramite l’alimentazione o, nel caso delle piante, con la fotosintesi.
Nel caso dei numerosissimi prodotti creati dell’uomo, fabbricati e venduti, quindi da noi acquistati ed usati tanto in casa quanto in auto, in giardino o sul/nel nostro stesso corpo, si assiste invece prevalentemente ad un percorso di tipo opposto.
E’ vero infatti che taluni prodotti per la cura della persona (es. cosmetici, integratori, ecc) ma anche della casa (es. profumatori) sono miscele di sostanze estratte tal quali, ovvero già in miscela, da una fonte naturale, magari in parte depurata e/o integrata con l’aggiunta di altre sostanze, ma la realtà più diffusa è quella che vede a monte della maggior parte dei prodotti di uso domestico sostanze chimiche pure, per lo più sintetizzate industrialmente, miscelate successivamente “ad hoc” per ottenere una miscela (soluzione, emulsione, sospensione, ecc) avente esattamente le caratteristiche e le qualità richieste in funzione dell’utilizzo per la quale è stata concepita.
PRODOTTI DOMESTICI SEMPRE PIU’ COMPLESSI: A CHI IMPORTA?
>Ci si potrebbe domandare a chi possa mai importare se i prodotti venduti ed utilizzati su larga scala, quelli per intenderci acquistabili da ciascuno di noi in qualsiasi supermercato o magazzino per il fai-da-te, siano costituiti da una sostanza chimica singola o da miscugli più o meno complessi.
In effetti però la cosa interessa molto, anzi moltissimo almeno tre categorie di persone.
Al primo posto coloro che utilizzando questi prodotti, sembra un’inutile specificazione sottolinearlo, “proprio per la funzione per la quale sono stati pensati”: i prodotti in miscela rappresentano infatti nel più dei casi il punto di arrivo di un’evoluzione del prodotto (magari un tempo composto da una solo o da poche sostanze singole) in funzione di un’ottimizzazione della sua efficacia, minimizzando per quanto possibile il suo impatto negativo sulla salute dell’utilizzatore, sull’ambiente e, non ultimo, sul nostro portafogli.
Al secondo posto troviamo i chimici analitici, siano essi interessati alle problematiche cliniche e tossicologiche sull’uomo o ai problemi di inquinamento, tanto dell’ambiente naturale quanto di quello domestico: c’è di sicuro una bella differenza tra il ricercare e quantificare la presenza di canfora (una delle pochissime sostanze prodotte da una pianta in forma già pura ed utilizzata tal quale nell’ambito domestico, tanto come anti-tarme quanto in unguenti per massaggi) e tutti i ventiquattro componenti di un moderno unguento per massaggi. Essendo inoltre le stesse molecole utilizzate talora in prodotti molto diversi per categoria di funzione (es. igiene personale, additivi alimentari, profumatori per auto, solventi per vernici, ecc) ed essendo le stesse magari riscontrabili anche nell’ambito dei prodotti naturali, le valutazioni causa-conseguenza tra l’uso di un determinato prodotto ed i suoi effetti su scala epidemiologica diventano sempre più complessi.
Un ulteriore elemento di complessità, che suscita di solito una certa perplessità agli occhi del chimico quando, nell’intimità della sua vita domestica, gli capita di leggere l’etichetta che riporta la composizione di molti prodotti di uso quotidiano, quali saponi, detersivi, profumi e creme per il viso. Fianco a fianco di componenti chimici precisi (quelli che, corrispondendo ad una struttura molecolare ben definita, si dicono avere un codice di registrazione CAS), troviamo infatti componenti che ci aspetteremo più di trovare in un erbario o in un orto botanico. Si tratta di estratti botanici, infusi, oli essenziali o altri derivati, più o meno integrali a tutela della caratteristiche funzionali riconosciute alla pianta di origine, che vengono descritti in etichetta con la nomenclatura linneiana, quella binaria composta da Genere + specie. L’introduzione di questi estratti introduce nel prodotto finito uno straordinario fattore di complessità composizionale derivante dal fatto che da ciascuna pianta non viene solitamente estratta una, bensì decine o centinaia di differenti sostanze chimiche, spesso semplicemente in tracce, alcune delle quali non facilmente monitorabili dal punto di vista chimico-analitico.
Infine un’ultima categoria di persone, certamente più rara delle altre ma per la quale la graduale sostituzione di prodotti monocomponente con prodotti complessi, venduti per la medesima funzione, sta rappresentando una vera e propria calamità. Parliamo di tutti quelli appassionati di chimica e di scienze in generale, non professionisti o comunque interessati a realizzare esperienze di chimica anche in ambito casalingo, quindi studenti al primo posto, ma anche persone non più così giovani che rappresentano l’evoluzione curiosa ed intelligente del piccolo chimico, appassionati del fai-da-te, insegnanti e gli stessi scienziati che, al di fuori del contesto professionale, non hanno facilità a mettere le mani su sostanze chimicamente pure. Queste ultime, infatti, sia nella loro forma extrapura (es. sotto forma di standard in confezioni talora di molto meno di un grammo di contenuto) che in quella a purezza più bassa, per uso nell’industria chimica come materia prima per sintesi, sono commercializzate secondo canali, consuetudini ma oggi anche vere e proprie norme, che escludono sempre di più la possibilità di accesso ad esse da parte dell’utente privato.
Le ragioni di questo, inizialmente ricercabili in ambito banalmente contabile (le grandi aziende di produzione e commercializzazione trovavano solo una perdita di tempo ed una improduttiva complessità amministrativa vendere al dettaglio piccolissime pezzature a clienti privati, sprovvisti di partita IVA), si sono via via arricchite negli ultimi anni di precise disposizioni di legge che hanno ampliato e continuano ulteriormente ad ampliare la lista delle sostanze chimiche pure la cui vendita, anche se non proibita, richiede un’opportuna verifica dell’acquirente, della sua affidabilità ed in molti casi di una precisa dichiarazione scritta da parte di questi sulla destinazione d’uso delle sostanze richieste. Rischi tossicologici per l’utilizzatore e per l’ambiente, mercato degli agenti dopanti, stupefacenti e del farmaco abusivo, allarme terrorismo sono certamente fra le ragioni principali che hanno spinto il legislatore, ma anche gli organi di autoregolamentazione delle stesse branche commerciali delle principali compagnie chimiche, a muoversi in questo senso.
Mettendo insieme questa comprensibile limitazione all’acquisto secondo i canali ufficiali, quelli per intenderci riservati agli “addetti ai lavori” e la crescente complessità delle formulazioni, sempre meno mono-componente rispetto ad un tempo, quello che si prefigura è un quadro dove la piccola ma vivace nicchia degli appassionati di scienze fai da te, molti dei quali appunto tutt’altro che sprovveduti o inesperti, troverà sempre maggiore difficoltà nel reperire sostanze chimiche pure o per lo meno non eccessivamente miscelate con altre da poter essere impiegate per le proprie finalità didattiche e sperimentali.
LE SOSTANZE PURE NELLA VITA DOMESTICA… VINTAGE
In effetti all’inizio dell’era industriale erano molti di più i materiali chimicamente costituiti da una sola specie chimica che entravano nella nostra casa e, più in generale, con i quali potevamo avere occasione di entrare in contatto nel corso della giornata. Pensiamo ad alcuni di essi, oggi praticamente sconosciuti ai più giovani: dal famoso “carburo”, un materiale solido in pezzi della dimensione di ciottoli, chimicamente costituito da carburo di calcio, che a contatto con l’acqua liberava lentamente acetilene (ovvero etino, l’alchino più semplice, a due atomi di carbonio), un gas altamente infiammabile che giustificava l’impiego dello stesso carburo nell’illuminazione domestica in quelle che erano appunto note come lampade ad acetilene. Quello che rimaneva nell’acqua era invece idrossido di calcio, ovvero quella che conosciamo comunemente come calce spenta.
Un altro capitolo nel libro del vintage dei materiali chimicamente puri o quasi è quello relativo ai metalli. Il ferro, usato singolarmente e non sotto forma di acciaio (quindi insieme a carbonio) o in lega con altri metalli che ne incrementino la resistenza all’ossidazione, è stato a tempo abbandonato nelle sue applicazioni per la realizzazione dei manufatti domestici proprio a causa della sua tendenza ad arrugginire combinandosi in primo luogo con l’ossigeno atomosferico e, secondariamente, con l’acqua e l’anidride carbonica per formare una varietà di ossidi-idrati di ferro (III), la cosiddetta ruggine che, a differenza delle patine da ossidazione tipiche degli altri metalli, non aderisce alla superficie del metallo proteggendolo da una ulteriore ossidazione ma, al contrario, si distacca da esso, fino allo sgretolamento graduale di tutto il manufatto. Per quanto il ferro in sé stesso non entri ormai quasi più nelle nostre case, sono molte le espressioni entrate nel nostro linguaggio quotidiano a basarsi sull’uso tradizionale di questo materiale: ferro da stiro, ferri del mestiere, essere sotto i ferri o ai ferri corti, ecc.
Zinco e nichel, come probabilmente anche altri metalli più resistenti all’ossidazione e/o meglio passivabili, un tempo utilizzati per la produzione di manufatti massicci mono-materiale, sono ora impiegati o in lega con altri metalli, oppure come protettivi di superficie tramite placcature di altri metalli meno resistenti (quindi zincatura, nichelatura, ecc). Il magnesio era il materiale i cui nastri metallici o la cui polvere bruciava istantaneamente con lo sviluppo di un fortissimo bagliore luminoso, tanto da essere impiegato per decenni nei flash delle prime macchine fotografiche.
La serie dei metalli che stanno irrimediabilmente abbandonando le nostre case, sostituito da altri liquidi sicuramente meno pericolosi, non sarebbe completa senza il mercurio, che ci ha accompagnato per anni in così tanti strumenti di misura: dai termometri per la febbre a quelli per gli ambienti, fino ai manometri come ad esempio quello per misurare la pressione del sistema circolatorio.
Lo stesso filamento delle lampadine ad incandescenza, destinate presto a scomparire dalle nostre abitazioni sostituite da quelle a risparmio energetico, era costituito da tungsteno, il metallo che fra tutti presenta il punto di fusione più elevato, uno dei pochi a resistere restando solido le migliaia di gradi di temperatura che il passaggio in esso della corrente elettrica avrebbe provocato per il cosiddetto effetto Joule.
Non di metallo ma pur sempre di sostanza chimica allo stato elementare si tratta, considerando il carbonio nelle sue varie forme allotropiche: dal diamante, questo sì ancora ben utilizzato, alla grafite, già a suo tempo mescolata con altre sostanze leganti nelle mine delle matite, e definitivamente affossata dal graduale declino di queste ultime, fino a quello che in effetti non può essere considerato come un vero stato allotropico del carbonio, ma una sorta di grafite sporca, mista ad altri materiali organici di natura fossile, ovvero il carbone. Il carbone, come del resto molti altri materiali mono-componente continuando a rivestire una grande importanza sul piano economico e strategico: semplicemente esso non entra più “tal quale” nelle nostre case, ma sotto forma di suoi derivati, sia in termini di materiali che in termini di energia elettrica ottenuta su larga scala a partire dalla sua combustione controllata.
Un’altra sostanza un tempo largamente utilizzata dalle nostre nonne, specie per la pulizia delle superfici e dei tessuti, era il carbonato di sodio, noto come “soda” (da non confondere con la “soda caustica” che invece è costituita da idrossido di sodio). Commercializzata in primo luogo dalla ditta Solvay, accanto al più noto e sempreverde bicarbonato, la soda era venduta come polvere solubile in acqua, in scatole di cartone e veniva utilizzata in funzione delle sue proprietà sufficientemente basiche da sciogliere molti tipi di molecole responsabili di sporcizia e cattivi odori, ma non basica a tal punto da danneggiare i materiali con i quali veniva a contatto, ad iniziare dalla nostra pelle.
Anche la naftalina, chimicamente l’idrocarburo biciclico aromatico naftalene, era una sostanza pura, questa volta ottenuta sinteticamente o per distillazione frazionata del petrolio, rivenduta sotto forma di palline del diametro di 15 mm circa, con la funzione di antitarme. Introdotta tra i vestiti o altra biancheria soggetta all’attacco delle larve di alcuni lepidotteri, ghiotti dei polisaccaridi e delle proteine delle quali questi capi erano costituiti (oggi con le fibre sintetiche avrebbero sicuramente qualche problema in più), la naftalina sublimava lentamente nel tempo, uccidendo o comunque tenendo lontani questi insetti. L’odore impartito agli abiti era tuttavia talmente intenso, non proprio gradevole e comunque così caratteristico da aver lasciato nella nostra memoria linguistica espressioni come “mettere sotto naftlalina” o “sapere di naftalina”. Curioso il fatto che Eta Beta, il noto personaggio con la testa a pera venuto dal futuro, amico di Topolino nei fumetti di Walt Disney, se nella versione originale si nutriva solo di naftalina, nelle puntate più recenti del fumetto di nutre di sottoaceti ed altri alimenti improbabili, ma pure sempre edibili… da qui il sospetto che qualche bambino abbia voluto emulare in geniale omino del domani ingerendo naftalina non me lo toglierà mai nessuno!
Un capitolo dei più corposi spetta sicuramente alle sostanze per uso medicale, e secondariamente per uso cosmetico, quelle che un tempo erano vendute prevalentemente in forma di sostanza pura, eventualmente diluite e/o miscelate su prescrizione medica direttamente dal farmacista, i cosiddetti “prodotti galenici”. Nel retrobottega di ogni farmacia trovava infatti sede qualcosa di molto simile ad un piccolo laboratorio chimico, dove il farmacista custodiva una grande varietà di sostanze chimiche pure che pesava in modo accurato, misurava in volume, filtrava, miscelava, imbottigliava, etichettava e magari titolava pure nella loro concentrazione effettiva.
Ragioni di mercato, altre di ordine pratico, insieme ad una sempre maggiore normazione in materia hanno fatto sì che le stesse farmacie si trasformassero sempre più da laboratori di preparazione chimica a dispensari di farmaci concepiti e prodotti a livello industriale, con il valore aggiunto della consulenza degli esperti sempre presenti in negozio.
Eppure sono state proprio le farmacie, specie per quelli di noi ormai non più giovanissimi, i fornitori informali delle migliori e più improbabili sostanze in forma pura, elargite in minuscoli incarti di carta velina oppure in boccette con etichette vergate a mano. Per molti di noi queste inusuali esperienze, questi esperimenti domestici hanno costituito piccolo un seme, poi cresciuto e sbocciato fino alla scelta in senso scientifico della nostra futura professione.
Quando un tempo i farmaci risultavano meno complessi di quelli attuali, sia nei loro principi attivi che nei loro eccipienti, sicuramente più rudimentali, approssimati e meno testati, il rapporto fra il medico, il farmacista e lo stesso paziente, a dispetto del livello culturale medio per certi versi più modesto, parlava ancora con un linguaggio chimico. Lo stesso linguaggio che è ora stato sostituito da nomi commerciali e marchi registrati dietro ai quali si nasconde la natura indecifrabile di un prodotto irrimediabilmente sempre più complesso.
Nell’intervento che segue saranno elencati e brevemente descritti i più importanti, curiosi o sottovalutati prodotti chimicamente puri (o quasi) che entrano ancora regolarmente nelle nostre case, giardini e garage, riprendendo per ciascuno di essi natura chimica, applicazioni, rischi e virtù.