Credo che un po’ tutti, magari da bambini, ci siamo posti almeno una volta la scottante domanda “da cos’è fatto il fuoco?”. Lo vediamo talvolta definito, con un contorno luminoso netto quando arde dallo stoppino una candela o quando crepita ondulando dai ceppi sul caminetto. Ne percepiamo quelli che potremmo indicare come gli effetti, la luce ed il calore, talvolta persino il suono sotto forma di crepìtio, e sfruttiamo questi effetti per illuminare e per riscaldare: in pratica è come se un po’ tutti i nostri sensi fossero coinvolti nella percezione del fuoco, almeno per quanto riguarda “alcuni fuochi”, ma in qualche modo è come se intuissimo che luce e calore non siano altro che effetti secondari e che il fuoco in sé sia qualcosa d’altro, qualcosa la cui essenza ultima ancora ci sfugge. Talvolta frastagliato, evanescente, irrequieto e convulso, altre volte così fermo e definito che ci sembra di poterlo afferrare con due dita, come la fiamma immobile e gialla di una candela. E’ in un certo senso naturale che molti di noi si domandino quindi da cosa sia fatto, quale sia la sua sostanza, la sua composizione, che lo rende così simile ad uno spiritello maligno, in apparenza ma solo in apparenza afferrabile, che punisce la nostra intrusione con una bella scottatura se non addirittura con un vero e proprio incendio!
Ed è inutile in questa sede risollevare l’universo simbolico che in ogni cultura orbita intorno a questa entità, dalla sua divinizzazione alla sua comprensione nella quaterna degli elementi fondanti del nostro universo (insieme ad acqua, terra ed aria)
In prima battuta possiamo dire che il fuoco non è da concepire come una sostanza o un miscuglio di sostanze ma piuttosto come un insieme di diverse manifestazioni distinte, percepibili con i nostri sensi, di fenomeni fisici che derivano tutti direttamente o indirettamente da una reazione chimica definita “di combustione”.
La combustione è di per sé una reazione appartenente al grande gruppo delle ossido-riduzioni, accomunate tutte dal punto di vista microscopico da trasferimenti di elettroni dagli atomi di un tipo di elemento a quelli di un altro tipo. L’elemento che cede elettroni (negativi) acquista cariche positive e si dice che si ossida, mentre quello che acquisisce su di sé questi stessi elettroni assume carica maggiormente negativa e si dice che si riduce. Abbiamo visto in un post passato come i fenomeni di ossido-riduzione siano alla base di altre manifestazioni macroscopiche tipiche della nostra vita quotidiana, come ad esempio l’ossidazione dei metalli, e quindi l’arrugginimento del ferro.
La combustione invece è un altro caso di ossidoriduzione dove l’ossidante (gli atomi che acquistano elettroni) sono allo stato gassoso, ed in modo specifico nella stragrande maggioranza dei casi quotidiani sono l’ossigeno stesso dell’aria, mentre la parte che si ossida (nel caso specifico potremmo dire “che brucia”) può essere costituita da molecole di tipo estremamente diverso, nella stragrande maggioranza dei casi da molecole organiche, contenenti quindi al loro interno carbonio.
A rigore del vero dobbiamo dire che possono esistere tipologie di combustione che possono non coinvolgere neppure molecole organiche a base carbonio, più raramente non coinvolgere ossigeno, ma queste raramente si presenteranno nella nostra vita quotidiana da non chimici.
Tornando alle definizione di fuoco, in realtà si osserva che non tutte le combustioni si presentano sotto la forma esteriore ed osservabile di un fuoco.
Le combustioni sono sempre reazioni di tipo esotermico, sì, ma tutto il contorno di fattori che permettono all’osservatore di intuire e quindi percepire che la reazione stessa sta avvenendo, anche senza “metterci sopra le mani” spesso sono così ridotte da risultare inavvertibili. La fiamma di un gas molto puro, ad esempio metano, in condizioni di forte abbondanza di ossigeno, ad esempio in un fornello perfettamente pulito o meglio ancora in uno dei becchi Bunsen usatissimi nei laboratori chimici e biologici, può risultare incolore, trasparente, pressoché immobile e silenziosa, tanto che non è stato raro che qualche studente, non vedendola, ci passasse sopra con la manica del camice, con ovvie e pericolose conseguenze.
A parte il calore, sono soprattutto i fenomeni derivati o laterali alla combustione vera e propria che attribuiscono al fenomeno della combustione quelle sue caratteristiche che ci permettono di identificarlo facilmente come fuoco. Il primo responsabile di tutto questo è probabilmente la lieve carenza di ossigeno nella quale molte combustioni si realizzano: se abbiamo ben presente una fiamma, magari di grandi dimensioni e relativamente “ferma” ci renderemo conto che essa si presenta con un aspetto diverso, ad esempio con diversa colorazione, a seconda che la osserviamo sulla sua base, ovvero più vicina al materiale che sta bruciando, oppure più in periferia, ovvero più lontano da esso, magari sulla sommità della stessa fiamma.
Esiste un rapporto “ideale” fra combustibile e comburente (ossigeno), dettato dall’equazione della reazione chimica di ossidazione. Ad esempio si vede dalla reazione sopra riportata che per ogni mole di metano servono 2 moli di ossigeno per una combustione completa. Tradotto in grammi, si può dire che per ogni 16 grammi di metano occorrerebbero 32 grammi di ossigeno, ovvero scalato al minimo comune multiplo, metano ed ossigeno dovrebbero essere presenti nel rapporto 1:2 in peso. Nella pratica accade quasi sempre che questi rapporti risultino squilibrati per una moltitudine di motivi: la carenza di ossigeno in un caminetto può derivare da un tiraggio non sufficiente, ma anche nel migliore dei caminetti accade che la combustione nella porzione di atmosfera immediatamente a contatto con il combustibile (legno) risulta svolgersi in carenza di ossigeno, anche per il semplice motivo che in quella zona “in mezzo al fuoco” esso risulta essere già del tutto consumato. Accade pertanto che nel più dei casi il combustibile bruci inizialmente in carenza di ossigeno, e formi pertanto dei prodotti che non sono l’anidride carbonica finale, bensì delle molecole organiche di piccola dimensione e volatili che, spostandosi allo stato gassoso nella zona più esterna del fuoco, vengono via via a contatto con quantità gradatamente maggiori di ossigeno, fino eventualmente alla loro ossidazione totale ad anidride carbonica… sempre che la quantità di ossigeno ambientale sia sufficiente. Se anche alla fine del processo queste molecole venissero a contatto con una quantità ancora insufficiente di ossigeno, al posto dell’anidride carbonica la reazione di combustione potrebbe fermarsi al gradino inferiore, ovvero alla formazione del tanto temuto monossido di carbonio.
Ma facciamo un passo indietro, fondamentale per comprendere meglio l’aspetto del fuoco. Le molecole intermedie che si formano a partire dal combustibile, quelle parzialmente demolite per ossidazione, quindi più piccole, più volatili, che non si sono ancora completamente ossidate ad anidride carbonica, sono specie chimiche talvolta altamente instabili, che sopravvivono nell’ambiente del fuoco per brevissimi istanti, anche perché spesso si tratta di molecole per certi versi incomplete ed estremamente reattive, i cosiddetti radicali del carbonio, dell’ossigeno e di entrambe gli elementi combinati fra loro.
Questi radicali instabili possono caricarsi energeticamente in funzione dell’energia sprigionata dal processo stesso di combustione; quasi immediatamente però cedono l’energia acquisita e lo fanno, fra gli altri sistemi, sotto forma di radiazione elettromagnetica luminosa, secondo lunghezze d’onda che sono specifiche per ciascuna specie radicalica.
Una combustione condotta in largo eccesso di ossigeno, ovvero ben areata fin dal primo contatto fra combustibile ed atomosfera, a parità di altre condizioni fornirà una fiamma molto più incolore, fino al limite della trasparenza.
Nel noto becco Bunsen, ovvero nel cannello portafiamma comunemente utilizzato in laboratorio, è presente una ghiera con dei buchi di aerazione alla base del cannello stesso, attraverso la quale può essere fatto entrare più o meno ossigeno. Aprendo completamente questi buchi il metano, il GPL, il butano o in generale il gas combustibile utilizzato, viene miscelato con una grande quantità di ossigeno prima ancora di uscire dal beccuccio all’interno della zona di combustione e pertanto quando entrerà a far parte della fiamma lo farà senza formare radicali incombusti, con il risultato di una fiamma trasparente con lievi sfumature bluastra come nell’esempio a destra dei quattro.
Chiudendo via via queste aperture, quello che uscirà sarà gas combustibile sempre meno miscelato con ossigeno, fino alla formazione della fiamma colorata di sinistra, molto luminosa perché ricca di radicali incombusti motivati da un ritardo nel contatto fra combustile ed aria.
Un altro fattore fondamentale nella “colorazione” del fuoco è la presenza di taluni elementi chimici, seppur a bassa concentrazione, all’interno del combustibile: sodio, potassio e calcio, giusto per nominarne alcuni, sono elementi pressoché ubiquitari nei combustibili organici solidi di origine vegetale, come per esempio il legno, la paglia ma anche in carbone e la torba e ciascuno di essi, a livello atomico viene eccitato dall’energia della combustione in corso. L’eccitazione consiste nell’aumento del livello energetico degli elettroni più esterni di ciascun atomo. Durante il rilassamento che immediatamente dopo ne deriva, ciascun atomo coinvolto rilascia a sua volta l’energia precedentemente acquisita e lo fa, fra gli altri modi altre, sottoforma di luce ad alcune ben determinate lunghezze d’onda, ovvero con il risultato di generare luce di un colore ben determinato, caratteristico per ciascun elemento chimico: nella maggior parte delle combustioni di prodotti di origine vegetale prevarrà il giallo del sodio, ma sotto sotto, potessimo rimuovere questo, sarebbe presente anche il lilla del potassio ed il rosso mattone del calcio. Lo stesso fenomeno è sfruttato negli spettacoli pirotecnici, miscelando alla miscela combustibile/comburente anche sali di elementi magari un po’ più esotici ma intensamente colorati: il litio per impartire il colore rosso carminio, il rame per impartire il colore verde-azzurro, lo stronzio per impartire il colore rosso scarlatto, e così via.
Volendo esplorare proprio tutti i sensi, magari tralasciando per ovvie ragioni soltanto quello del gusto, possiamo facilmente intuire che il crepitìo del fuoco sia dovuto primariamente alla presenza di acqua intrappolata all’interno di micro-strutture chiuse molto comuni nei combustibili solidi di origine vegetale, ad esempio il legno: l’aumento di pressione dovuto alla trasformazione di acqua liquida in vapore all’interno di questi interstizi genera piccolissime esplosioni che vengono percepite dall’osservatore sotto forma di rumore ed eventualmente di piccole proiezioni di scintille al di fuori della massa principale coinvolta. L’odore del fuoco è ovviamente legato alle sostanze chimiche contenute nel combustibile, che il calore fa evaporare nell’ambiente prima ancora che esse vengano a trovarsi a temperature sufficienti a far innescare la loro ossidazione (combustione), nell’esempio del legno da pezzi di questo materiale non ancora sufficientemente avvolti dalle fiamme; altri odori caratteristici del fuoco sono invece imputabili alla parziale ossidazione di altre molecole contenute inizialmente nel combustibile, ad esempio delle resine presenti nel legno: se è vero che un’ossidazione totale porterà qualsiasi molecola organica a trasformarsi in semplice anidride carbonica, allo stesso modo una ossidazione incompleta, magari per ragioni di carenza di ossigeno (o di eccesso di combustibile!) porterà alla loro degradazione solo parziale, con la formazione di molecole spesso più piccole, quindi più voltatili ed in molti casi anche più intensamente odorose.
Il fuoco quindi, o meglio la fiamma, non come un fenomeno unico ma come un insieme di manifestazioni di fenomeni di dettaglio, tutti motivati in ultima ragione dalla reazione di combustione vera e propria ma fortemente condizionati dalle condizioni specifiche nella quali questa reazione si svolge, ovvero dal tipo di combustibile (la sua composizione e la sua struttura fisica) e dalle modalità di combustione (es. i rapporti relativi fra combustibile ed ossigeno, che rispetto all’ideale definito “stechiometrico” possono risultare più sbilanciati nei confronti di uno o dell’altro dei due reagenti).
L’osservazione curiosa è che l’ossidazione stessa delle molecole organiche, seppur condotta con metodi diversi, sicuramente meno “caldi” e mediata da enzimi che consentono in qualche modo di massimizzarne la cattura energetica, è concettualmente la stessa che avviene nelle cellule degli esseri viventi, sia animali che vegetali, con consumo per l’appunto di ossigeno, e che prende il nome di respirazione. Respirazione e fuoco in fondo sono in linea di principio due percorsi completamente diversi per il compimento però di uno stesso processo di ossido-riduzione globale, magari esattamente sulle stesso molecole.
D’altronde è entrata da anni nel nostro linguaggio quotidiano l’espressione “bruciare” legato alle sostanze nutritive energetiche assunte con l’alimentazione, come per esempio gli zuccheri e i grassi, anche se spesso non riflettiamo fino in fondo sul fatto che si tratta di catene di reazioni chimiche che, seppur con step intermedi e modalità di conduzione completamente diverse, condividono tuttavia lo stesso bilancio complessivo fra reagenti e prodotti, ovvero fra le molecole organiche e l’ossigeno a monte, e l’anidride carbonica e l’acqua a valle del processo.
Se proprio volessimo paragonare l’essenza del fuoco a qualcosa di già appartenente al nostro mondo macroscopico ed esteriore, più che ad un oggetto materiale o a una sostanza chimica, potremmo quindi accordarci con gli antichi che vedevano in esso l’entità propulsiva della vita; se non addirittura, in un tripudio retorico, un essere vivente in toto, che nasce, si alimenta, respira, brucia, si manifesta, si propaga e che è suscettibile di morte per mancanza di cibo o di aria.