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Appunti di Chimica

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Aggiornato il 12 Luglio 2023 da Luca Sala

Significato della Pesata e Limiti della Volumetria

Indice

  • VARIABILI E LIMITI DELLA VOLUMETRIA: IL PROBLEMA DELLA DENSITA’ VARIABILE
  • LA RAGIONE PRATICA NELLA DISPENSAZIONE VOLUMETRICA
  • COSA SI INTENDE REALMENTE PER PESATA
  • LE CIFRE SIGNIFICATIVE NELLA PESATA
  • IL PROBLEMA DELLE DILUIZIONI
  • NON PERDERE MATERIALE STRADA FACENDO

Tra i parametri più comunemente utilizzati per esprimere e misurare la “quantità” disponibile di un dato materiale, sia esso una sostanza chimica pura come anche una miscela complessa ed eventualmente incognita, vi sono sicuramente il volume ed il peso.

Nel corso della mia esperienza personale ho avuto modo di accumulare tutta una casistica di argomentazioni fra loro diversissime che tuttavia quasi all’unanimità concordano nel valorizzare la scelta della gravimetria (nome nobile per indicare la misura del peso, tramite bilance), a scapito della volumetria sia per la misurazione che per il dosaggio di sostanze, sia liquide che solide, non soltanto nella realtà dei laboratori chimici, ma ovunque si presenti la necessità di misurare la quantità di una determinato materiale sfuso, quindi anche in cucina e nei laboratori artigianali.

La preferenza per le misurazioni in peso, specie se condotte con gli accorgimenti pratici e concettuali che avrò modo di descrivere fra poco, diventa ancora più importante nella prospettiva dell’impiego delle sostanze pesate in vista della preparazione di soluzioni o miscele multicomponenti e per l’allestimento di set di campioni a diversa concentrazione.

VARIABILI E LIMITI DELLA VOLUMETRIA: IL PROBLEMA DELLA DENSITA’ VARIABILE

Quando si parla di liquidi sorge spontaneo pensare subito ai volumi, e quindi a contenitori graduati, a misurini, cilindri con scale e numerazioni impresse, matracci tarati e  tutta quella gamma di strumenti in vetro e in plastica che affollando, oltre ai laboratori, anche le nostre cucine di casa.   Questa associazione di idee fra liquidi e volumi risulta in effetti, oltre che scontata, per certi versi leggermente fuorviante, non soltanto in ragione del fatto che oltre ad un volume ciascuna sostanza (solida, liquida o gassosa che essa sia) è sempre caratterizzata anche da un peso, ma anche in ragione del fatto che questo peso, rispetto al volume, risulta meno soggetto a variazioni poco controllabili e più facile misurarlo con accuratezza e precisione con strumentazione di costo anche piuttosto contenuto, che va sotto l’esotico nome di… bilance.
Iniziando tuttavia a considerare l’approccio volumetrico alla misurazione della quantità di sostanze, ci rendiamo facilmente conto che da un punto di vista pratico esso risulta applicabile con grande facilità soltanto ai liquidi: per i gas infatti esso risulterebbe troppo soggetto all’influenza esercitata pressione, mentre per i solidi, specie per quelli corpuscolari, gli spazi vuoti esistenti tra un grano e l’altro, variabile con le condizioni di comminuzione (granulometria) e con l’assestamento degli stessi granuli, porterebbe a differenziare fra una densità effettiva ed una apparente del solido, con ripercussioni sulla univocità della misura del volume su questi materiali.
Per iniziare la grandezza del volume di un corpo, solido, liquido o gassoso che sia, dipende dalla temperatura del corpo medesimo (e, almeno nel caso dei gas, anche dalla pressione).   Questa semplice evidenza, che risponde al nome di dilatazione termica, porta a due diverse conseguenze, che già da sole potrebbero invalidare il significato del ricorso al volume per indicare la quantità di una sostanza: in primo luogo la necessità di effettuare la misura alla stessa temperatura del nostro riferimento.
Un metodo di preparazione che preveda il dosaggio di sostanze in volume dovrebbe a rigore indicare sempre la temperatura alla quale si riferisce la misura ma questa condizione ben difficilmente viene rispettata e dobbiamo nel più dei casi fare riferimento ad una convenzionale “temperatura ambientale” che, ammesso di riuscire a definirla, non risulta sempre facilmente raggiungibile come condizione operativa fra i laboratori che operano alle diverse latitudini, altitudini e stagioni dell’anno.
Quasi più grave ancora dell’effetto di dilatazione termica dei liquidi misurati (seppur di entità minore) è la variazione di volume a carico del contenitore stesso utilizzato per misura.  Il vetro stesso impiegato per la realizzazione dei contenitori tarati
Oltre che in funzione della temperatura, la densità (ovvero il rapporto peso/volume) di un liquido varia in funzione della sua composizione: nessun problema quando si ha a che fare con un liquido puro e definito nella sua composizione, mentre la situazione potrebbe diventare seriamente problematica quando il liquido sia composto da due o più sostanze chimiche in miscela ed i loro rapporti reciproci non siano rigidamente fissati.  E’ il caso delle soluzioni idroalcoliche, come ad esempio i liquori ed i distillati il cui “solvente” è costituito da una miscela di acqua e di etanolo, in rapporti variabili a seconda della natura del prodotto ma anche della modalità di preparazione, del lotto, ecc.  Maggiore sarà il volume di alcol etilico, minore sarà la densità, ovvero minore sarà il peso del liquido a parità di volume.  Se fosse di nostro interesse determinare la concentrazione di una molecola in soluzione (es. il responsabile di una nota aromatica, un principio attivo, una molecola da tenere sotto controllo per ragioni tossicologiche o legali, ecc) questa non trascurabile variabilità nella densità della soluzione porterebbe ad un intollerabile incertezza nell’espressione dei risultati dell’analisi qualora si cercasse di riferirli semplicemente al volume del materiale esaminato.
La stessa valutazione potrebbe valere anche per soluzioni solido/liquido concentrate, ad esempio per sciroppi zuccherini o per salamoie salate: in tutti questi casi, se il rapporto solido/liquido che sta alla base del “bulk” del prodotto può essere soggetto ad una seppur minima variabilità, ogni ulteriore analisi composizionale di questo genere di prodotti dovrebbe essere riferita non al volume bensì al peso del materiale.  Per esprimere la concentrazione in mentolo all’interno di liquori alla menta, contenenti oltre che acqua anche elevate concentrazioni in zucchero ed in alcol etilico, ad esempio, userò come unità di misura i milligrammi di mentolo per ogni chilogrammo di prodotto.
Come se non bastasse, e so bene che questa affermazione sarà destinata a sconvolgere ben più di un lettore, i volumi riferiti a sostanze diverse fra loro miscibili non sono fra loro necessariamente additivi.  A seconda della natura chimica delle molecole coinvolte, mescolando fra loro un certo volume della sostanza A e lo stesso volume della sostanza B, potremmo ottenere idealmente un volume dato dalla sommatoria di A e di B, ma anche inferiore oppure superiore questo valore atteso.  Anche senza scendere in questa sede nella spiegazione a livello molecolare di questo inaspettato fenomeno, si comprende facilmente come anche questo costituisca in qualche modo un deterrente per tutti coloro che di primo acchito avrebbero pensato di utilizzare i volumi come unità di misura per la preparazione di una miscela fra più sostanze liquide.

LA RAGIONE PRATICA NELLA DISPENSAZIONE VOLUMETRICA

Esistono però anche altre ragioni, queste invece di natura pratica, per le quali il ricorso al volume risulta solitamente meno affidabile rispetto alla misura del peso per indicare la “quantità” di una determinata sostanza.  Parlo del fatto che, a parità di fascia, gli strumenti di laboratorio utili per la misura dei volumi (es. burette, matracci tarati, pipette, ecc) risultano di fatto meno precisi ed accurati, nonché meno discriminanti, di quelli impiegati per

la misura dei pesi (bilance).   Anche la quantità minima misurabile potrebbe costituire un problema, soprattutto in relazione alla possibilità dell’inserimento di bolle d’aria (di non sempre facile rimozione) all’interno dei minuscoli e strettissimi contenitori impiegati per dosare frazioni di millilitro di liquidi: si pensi alle microsiringhe usate per le iniezioni cromatografiche, per le quali sono spesso richieste varie stantuffate di riempimento/svuotamento della siringa (operazione nota anche come “avvinamento”) finalizzate al bagnamento delle pareti interne del contenitore e quindi alla successiva riduzione nella formazione e trattenimento di bolle d’aria.

Il ricorso al volume può rivestire un significato in sede di dosaggio e di dispensazione di quantità determinate di prodotto: sia che si utilizzi in matraccio tarato (con una sola graduazione, circolare, in corrispondenza al volume nominale del contenitore) che un cilindro graduato (con riportata una scala graduata stampata sulle pareti) l’espressione del volume è comunque di tipo “discreto”, ovvero per intervalli numerici, piccoli o grandi che siano.   Se il metodo di preparazione al quale stiamo facendo riferimento richiede di aggiungere 100 ml di un certo liquido possiamo quindi fare ricorso ad un matraccio tarato da 100 ml o, eventualmente, ad un cilindro di volume anche maggiore (es. da 250 ml) purché riporti in modo esplicito un segno di graduazione “anche” a 100 ml.   Al contrario, se disponiamo di una certa quantità incognita di liquido e vogliamo misurarne il volume, potremo avere non pochi problemi: la cosa più ragionevole sarà quella di trasferirlo in un cilindro graduato e vedere in corrispondenza di quale intervallo di tacche si assesta il livello del liquido.  La differenza fra una tacca e l’altra tuttavia può essere non sufficientemente ridotta e, specie nei cilindri per volumetrie maggiori, caratterizzati da un diametro di 5 o anche 10 centimetri, può corrispondere anche a diversi millilitri di differenza.   Ed ovviamente il produttore non può affollare la scala graduata di tacchette e numeri, rendendo la lettura “ad occhio” ancora più difficoltosa.
Pur essendo strumenti di regolare uso nei laboratori chimici, i cilindri graduati presentano quindi un potere risolutivo di gran lunga inferiore rispetto ad una bilancia di laboratorio anche di qualità mediocre.   In un certo senso la misura del volume paga anche lo scotto di risultare meno facilmente digitalizzabile rispetto a quella del peso: il ricorso ad una scala graduata sulle vetrerie di laboratorio comporta inoltre l’intervento dell’operatore con un esame di tipo visivo.  Bisogna “vedere” in corrispondenza di quale tacchetta si assesta il livello del liquido nel cilindro, in corrispondenza di quale tacchetta abbiamo fatto arretrare il pistone in una siringa, o aggiungere liquido in un matraccio tarato finché “vediamo” che il suo livello coincide con quello detta tacchetta di graduazione.   Quindi una possibilità in più di errore, legata all’approssimazione soggettiva della lettura.  Una lettura di livello corretta dovrebbe sempre essere effettuata ponendosi con gli occhi sullo stesso livello della linea di demarcazione fra le due fasi, ovvero fra quella liquida sottostante e l’aria al di sopra di esso: per evitare di alzare il contenitore a livello del vis, rischiando di inclinarlo facendo perdere il necessario parallelismo fra il livello del liquido (sempre orizzontale, per gravità) e quello della graduazione (che dipende invece dall’inclinazione del contenitore), il suggerimento è quello di lasciare il contenitore sul piano orizzontale di lavoro e di piegarci ad osservarlo sul sul stesso livello.  Guardare i contenitori dall’altro al basso potrebbe portare ad un errore sistematico (sempre nella stessa direzione) delle diverse misure eseguite, con perdita in accuratezza.

Ma c’è di più, e questa volta in direzione della perturbazione dell’altro fondamentale parametro di misura, quello della precisione: la creazione del menisco.  Avete mai notato che, specie nei contenitori più stretti, ad esempio nei colli dei matracci così come nelle burette, la linea di demarcazione superiore del livello del liquido appare “più spessa”, e per la precisione assume una forma lenticolare, più bassa al centro e più alta in corrispondenza delle pareti del contenitore?  Si tratta di un fenomeno ben studiato dai fisici che deriva da fenomeni di adesione fra le molecole del liquido e quelle del materiale di cui è costituito il contenitore e sta alla base di altri fenomeni come quello della risalita capillare, visibile con chiarezza solo nei condotti più ristretti. Dal punto di vista delle misure volumetriche la formazione del menisco complica non di poco la valutazione visiva del livello raggiunto dal liquido, introducendo in essa una componente soggettiva.  Quando lo spessore del menisco inizia a farsi importante (fino ad un paio di millimetri, in dipendenza sia del tipo di liquido che della sezione del contenitore), ci si potrebbe domandare se fare riferimento al valore della graduazione alla base di questa piccola lenticchia, a quella posta sul suo lato superiore o, eventualmente, a quella centrale.  Per convenzione si è scelto di fare riferimento alla “pancia” del menisco, ovvero a fissare il volume con riferimento alla graduazione corrispondente al limite inferiore di questa lenticola.

Nonostante tutte queste limitazioni, il ricorso al volume può risultare estremamente agevole quando si renda necessaria la dispensazione veloce, reiterata e magari non necessariamente rigorosissima di piccoli volumi di liquido.  E’ il caso della pipettatura, l’operazione con la quale l’operatore si trova a prelevare da un contenitore e trasferire in un un altro, magari centinaia di volte al giorno, volumi dell’ordine di alcuni millilitri o anche di

frazioni di questi.  La temperatura ambientale è piuttosto ben controllata, il materiali di cui sono fatti i contenitori (di solito puntali monouso su pipette automatiche) sono molto ben conosciuti e comunque una limitata incertezza relativamente al volume effettivamente erogato nelle varie ripetizioni dell’operazione è considerata tollerabile nell’ambito dell’applicazione specifica.   La pipettatura trova larghissima applicazione nelle operazioni quotidiane presso i laboratori di analisi ed in particolare quelli che operano nei settori inerenti la biologia, ovvero quello biochimico, la biologia molecolare e l’analisi clinica: la richiesta di sistemi veloci, pratici e privi di contaminazione fra dipensazioni successive di campioni diversi hanno portato la aziende produttrici a mettere a punto sistemi estremamente egonomici, dove solo il puntale monouso della pipetta entra in contatto con il liquido e viene poi scartato per eplulsione al termine della dispensazione, dando la possibilità di caricare ad ogni pipettata un puntale nuovo.  Sempre in direzione della maggiore velocità di esecuzione di questa che spesso è da ritenersi l’operazione con intervento umano più ripetuta in molti laboratori, vengono le pipette multicanale, in grado di caricare e successivamente erogare simultaneamente fino ad una decina di piccoli volumi, parallelamente, da contenitori di partenza a contenitori di arrivo, di solito batterie di piccole fialette in plastica parzialmente unite l’un l’altra o addirittura piastre preformate con piccoli pozzetti in grado di raccogliere anche soltanto un millilitro di volume.

Come anticipato in premessa, buona parte delle criticità appena evidenziate per la misurazione volumetrica della quantità di sostanze, liquide o solide che esse siano, vengono naturalmente ovviate nel caso in cui si scelga di misurare la quantità di sostanza mediante il suo peso, semplicemente tramite una bilancia.  Utilissima anche nel caso si tratti di sostanze liquide, con l’impiego di idonei bicchierini, matracci o altri contenitori da pesata.

COSA SI INTENDE REALMENTE PER PESATA

Uno dei principali problemi nasce probabilmente da un’interpretazione per certi versi fuorviante del concetto stesso di pesata.   Pesare significa, a rigore, determinare ovvero misurare il peso di un certo oggetto.  Posso avere un corpo unico, ad esempio una mela, così come  posso avere la polverina molto fine di un reagente richiesto per un esperimento, raccolto in un piccolo mucchietto isolato in un bicchierino.  Lo scopo della pesata è misurare il peso di quell’oggetto definito: questa è realmente la pesata. Determinare il peso di una porzione di materia già determinata ed isolata.
Tutt’altra interpretazione è invece quella che fa della “pesata” (notate il virgolettato) un modo per andare ad isolare una quantità desiderata di materia.
Sul fascicolo che descrive la preparazione della nostra miscela, ad esempio l’impasto per una torta ccosì come una miscela reattiva, oppure anche la posologia di un farmaco, è riportata una dicitura del tipo “aggiungere 5 g della sostanza X”.   Allora quello che facciamo è andare a prendere il barattolo di X, solido o liquido che sia, purchè suddivisibile in piccole porzioni, effettuiamo la taratura del nostro contenitore di raccolta sulla bilancia, ovvero azzeriamo la lettura, ed iniziamo poco per volta, molto gradualmente, ad aggiungere X facendolo scendere nel contenitore tramite un cucchiaino o un contagocce, fino a raggiungere il peso di 5 g.
Ecco, le due operazioni descritte, pur condividendo nel linguaggio corrente il nome di “pesata” corrispondono a due approcci concettuali del tutto diversi: il primo descrive la misura del peso di una porzione già isolata di materia (ed è per tanto assimilabile ad una osservazione), il secondo descrive l’isolamento stesso di una porzione di materia (ed è per tanto assimilabile ad una azione).
Come avrete a questo punto già facilmente intuito, la pesata vera e propria, nel senso rigoroso del termine, ma anche dal punto di vista pratico quella che consente di arrivare conti alla mano a risultati più realistici, è quella del primo tipo, ovvero la determinazione del peso di una porzione di materia già isolata.

Come si risolve allora il problema di natura pratica di isolare una quantità definita di sostanza, ovvero quello descritto nel secondo caso?   Come prima cosa dovremmo iniziare a domandarci per quale motivo ci sia richiesto di isolare questa determinata quantità di sostanza: scopriremo che nella maggior parte dei casi il fatto di aver isolato una porzione leggermente inferiore o leggermente superiore di sostanza è comunque accettabile, purché il peso “reale” di questa porzione isolata sia comunque noto.

Vi faccio un esempio, riprendendo quello dei 50 g di sostanza K richiesti per la preparazione.   Lo scopo era quello di preparare una soluzione di K a 50 g/kg in acqua.   Con tutta la buona volontà noi ci sforziamo di pesare “esattamente” 5 g ma anche a causa della natura corpuscolare, per quanto finemente suddivisa della polvere, o per la natura viscosa del liquido che lo porta a cadere nel contenitore di raccolta in forma di gocce, non è possibile aggiungere o togliere dal contenitore di pesata porzioni infinitamente piccole di sostanza.  L’operazione di “sottrarre” dal contenitore di pesata (sia esso un rettangolino di carta velina, una barchetta di alluminio, un matraccio o un bicchierino) una porzione di sostanza già appoggiatavi, e di rimetterla nel contenitore di partenza, è in tutti i casi un’operazione fortemente sconsigliata, se non altro per il rischio di contaminazione della stessa alla quale potrebbe andare incontro durante l’operazione di estrazione, contatto con l’aria e reintroduzione nel contenitore di partenza.   Quindi, se possibile, cercando comunque di evitare di sprechi, dovremmo sempre cercare di “aggiungere” e mai di “togliere” materiale dal contenitore di pesata sulla bilancia.

Abbiamo detto che cerchiamo quindi di avvicinarci il più possibile ai 5 g richiesti nel metodo di preparazione, ma per forza di cose quello che leggeremo alla fine sulla bilancia sarà un valore numerico leggermente diverso da quello richiesto: potrà essere leggermente inferiore (es. 4.987 g) o leggermente superiore (es. 5,151 g).  Inutile dirsi che questa diversità la possiamo notare solamente disponendo di una bilancia con un numero di cifre significative superiore a quello della pesata richiesta.   Non avrebbe infatti alcun senso cercare di pesare 5 g esatti di una sostanza su di una bilancia il cui potere discriminante che non scenda al di sotto dei grammi, perché il questo caso tanto i 4.987 g quanto i 5.151 g sarebbero comunque visualizzati come 5 g, pur non corrispondendo di fatto a questa quantità.
Il nostro operatore si troverà quindi di fronte ad una quantità teoricamente richiesta, i 5 g, e ad una quantità realmente isolata, ad esempio 5.151 g.   Ecco, quello che egli seppur involontariamente ha effettuato tramite la bilancia è stata una “pesata”, nel senso corretto del termine, ovvero la misurazione, l’osservazione di un peso, della quantità reale di sostanza isolata nel suo contenitorino di pesata.  Egli quindi annoterà il peso di 5.151 g in quanto sarà questo il valore reale della sua pesata.  I 5 g descritti nel metodo, nel più dei casi, possono essere interpretati come un’indicazione, una sorta di “ordine di grandezza”.   Sta di fatto che ora, per compensare l’errore di pesata, dovrà aggiungere una quantità diversa di acqua per diluire il prodotto e farlo ritornare alla concentrazione richiesta dal metodo di 5 g/kg.
Avesse isolato la quantità esatta di 5 g egli si sarebbe limitato a introdurre i 5 g separati in un contenitore più grande, aggiungendo acqua fino al raggiungimento del peso complessivo di 1 g, ovvero di 1000 g.   Ora avendo isolato una quantità leggermente maggiore di sostanza si troverà nella necessità di aggiungere una quantità “proporzionalmente” superiore di acqua.
Con una semplice proporzione matematica
5 g teorici di K  :  1000 g di soluzione  =  5.151 g effettivi di K  :  X g effettivi di soluzione
ricaviamo da qui il valore “x” del peso “maggiorato” al quale bisognerebbe ora portare la soluzione, tramite:
peso effettivo soluzione, X  =
=  (peso teorico soluzione, 1000 g) x (peso effettivo sostanza 5.151) / (peso teorico sostanza, 5 g)
… ovvero nel nostro calcolo 1030 g.   Quindi il nostro operatore userà la quantità effettivamente isolata di sostanza ed aggiungerà acqua fino al raggiungimento del peso di 1030 g, ottenendo in questo modo una concentrazione di K esattamente di 5 g/kg come richiesto dal metodo.
Mi pare già di sentire l’obiezione “ma se non riuscisse a fermarsi in tempo nell’aggiunta dell’acqua e si fermasse pochissimo prima o pochissimo dopo il raggiungimento del peso di esattamente 1030 g?”   Effettivamente avendo a che fare anche nel caso dell’acqua con una sostanza difficile da dispensare in dosi infinitamente piccole, l’operatore potrebbe arrivare a pesare quantità leggermente diverse dal valore intenzionalmente richiesto, ad esempio 1029,862 g oppure 1030.195 g.   Si converrà tuttavia che l’incidenza di questo errore sul peso complessivo della soluzione risulterà di ordini di grandezza inferiore rispetto a quello ce avrebbe avuto una imperfezione in sede di pesata della sostanza da diluire.
Da tutto questo possiamo trarre alcune importanti considerazioni circa i comportamenti da tenere in sede di
Ad esempio non pretendere a tutti i costi di voler isolare (in pratica di voler leggere sul display della bilancia) il valore numerico esatto desiderato ma, al contrario, cercare almeno dove possibile di utilizzare questo valore come un riferimento al quale avvicinarsi il più possibile, utilizzando tuttavia il peso “reale” della sostanza isolata nell’ambito dei successivo calcoli per l’impiego della sostanza stessa.
Si pensi per esempio che alcune sostanze particolarmente costose o rare, utilizzate di solito come standard di riferimento per analisi, sono commercializzate in confezioni da 1 mg o anche meno, che corrispondono di solito ad un paio di granellini di sostanza posti dentro ad una minuscola fialetta.  E’ chiaro che in questo caso non possiamo pretendere di isolare da questo, faccio un’ipotesi, 0.85 mg per mezzo di scatolina e bilancia.  Al contrario converrà versare tutto il contenuto della fialettina sul contenitore di pesata, annotare il peso effettivo di materiale disponibile e quindi procedere a partire da questo, effettuando le dovute proporzioni matematiche rispetto alle dosi eventualmente riportate sul metodo di preparazione.
Un’altra indicazione è quella di lavorare, se possibile, aggiungendo e non rimuovendo la sostanza dal contenitore di pesata posto sulla bilancia: oltre che per le già citate ragioni di contaminazione, questo è anche dovuto al rischio che comporterebbe l’entrare in modo invasivo con la scatolina o la pipetta per liquidi direttamente dentro al contenitore sul piattino della bilancia: nel caso di strumenti ultrasensibili, in grado per esempio di discernere il milionesimo di grammo (microgrammo), gli urti e le pressioni, seppur minimali, derivanti da questa operazione potrebbero perturbare non di poco la delicata operazione della pesata ed il riferimento alla tara precedentemente effettuata.

LE CIFRE SIGNIFICATIVE NELLA PESATA

Un’altra indicazione che si può trarre da quanto precedentemente esemplificato è la necessità di non pesare quantità troppo ridotte di sostanze, specie se su bilance poco sensibili.  Come si dice talvolta nel gergo di laboratorio “non bisogna pesare sull’ultima cifra significativa” ed è calorosamente sconsigliato farlo anche sulla seconda: se il nostro metodo prescrive di dosare, o per lo meno di “conoscere” il peso di un reagente sull’ordine dei grammi, dovremmo pertanto disporre di una bilancia in grado di discernere per lo meno i centesimi di grammi, ovvero due cifre dopo la virgola.
Tornando all’esempio della necessità di dosare 5 g di sostanza K, dovremmo ragionevolmente utilizzare una bilancia in grado di discernere anche i decimi ed i centesimi di grammo; se al contrario l’indicazione del metodo portasse esplicitamente anche il valore dei centesimi, ovvero 5.25 g, dovremmo pretendere di utilizzare una bilancia con almeno 4 cifre dopo la virgola!
La ragione di questo è presto descritta: una bilancia senza cifre significative dopo la virgola, capace solo di pesare i grammi fornirebbe valori -/+ 0.4999… g sul responso.   Pesando interi chilogrammi di prodotto il rischio di errore dovuto all’approssimazione sarebbe minimale (inciderebbe sull’ordine dello 0.1% sul valore della pesata), ma al diminuire della dose pesata questo errore diventerebbe via via più importante, fino ad un’approssimazione di ben il 50% nel caso volessimo pesare la quantità di solo 1 g di sostanza.
Inutile ricordare che anche gli “zero”, quando esplicitamente riportati su di un metodo che descrive al suo interno le quantità di sostanze coinvolte, hanno il loro ruolo di cifre significative.
A rigore, se trovassi scritto nel mio metodo di preparazione “introdurre 5 g di K”, non dovrei preoccuparmi eccessivamente se la quantità pesata oscillasse fra 4,5555…6 g e 5.49999… g.   E’ chiaro che si tratterebbe di un’indicazione estremamente approssimativa, il quanto questo “delta” corrisponderebbe a ben 1 grammo, ovvero a ben il 20% della quantità indicata di 5 g!  Ed è per questo che, al di là della teoria, anche leggendo un’indicazione che parla semplicemente di grammi, senza esplicitare il numero di zeri dopo la virgola, intendo a buon senso di leggerne, diciamo… un paio.   Al contrario, se fosse specificato già nella ricetta “introdurre 5.00 di K” dovrei pretendere un livello di precisione alla seconda cifra decimale, accettando quindi quantità pesate variabili fra 4.995…6 g e   5.005…4 g.
Non ha molto senso nel contesto di una preparazione che comporti il dosaggio e la miscelazione di due o più sostanze diverse, utilizzare livelli di accuratezza diversi per ciascuna di loro. Un metodo che indicasse per esempio “miscelare 5 g di K con 5.014 g di Z” dovrebbe essere guardato per lo meno con un po’ di sospetto.   Tutt’altro discorso vale invece nel caso in cui le dosi indicate per le diverse sostanze siano distanti per interi ordini di grandezza, ad esempio: “miscelare 5 g di K con 500 g di Z con 0.5 g di Y”
Sconsiglio infine l’eccessiva e solitamente fuorviante pignoleria nel riportare nel responso finale tutte le cifre che abbiamo la possibilità di leggere sul display dello strumento di misura, sia esso una semplice bilancia quanto il monitor di un PC che controlla uno strumento analitico più complesso.  Queste cifre possono ed anzi devono essere sì incluse per intero in sede di calcolo, specie se questo è gestito in modo automatizzato da fogli di calcolo come quelli realizzabili in Excel, ma alla fine, in sede di emissione del valore numerico del rapporto di prova, esso non potrà prescindere dalla valutazione delle cifre effettivamente significative e dal limite di tolleranza associato alla misura, valori questi che possono agevolmente essere valutati sulla base di test preliminari sulla strumentazione disponibile.   Costituendo una parentesi un po’ troppo impegnativa nell’ambito di un articolo destinato “soltanto” a parlare di pesate, credo tuttavia sia opportuno rimandare questo specifico argomento ad una sede separata.

IL PROBLEMA DELLE DILUIZIONI

Una delle necessità più diffuse nell’ambito di un laboratorio chimico è quella di preparare delle soluzioni a varia concentrazione per una certa sostanza, allo scopo per esempio di valutarne qualche proprietà in relazione alla concentrazione o, ancora più frequentemente, di costruire una semplice retta di calibrazione a finalità analitiche che plotta insieme concentrazione Vs responso (es. l’intensità di un segnale di un detector analitico).

Risulta chiaro come talune concentrazioni, quelle più ridotte, non si possono ottenere per pesata diretta della quantità di standard  necessaria, proprio perché questa risulterebbe il molti casi al di sotto, o comunque molto vicina, al limite di sensibilità della bilancia.   Non possono pesare 50 milligrammi di una polvere, richiesta per la preparazione di 100 ml di una soluzione a concentrazione 50 mg/l00 ml su di una bilancia che discerne solo i decimi di grammo.   Ragionevolmente avremo davanti due strade: una di queste consisterà nel pesare una quantità decisamente maggiore di standard, ad esempio 1 o più grammi della stessa sostanza e quindi diluirlo in una

quantità proporzionalmente maggiore di solvente.   Anche se questo metodo risulta probabilmente il meno approssimato, comporta tuttavia diverse difficoltà di ordine pratico: in primo luogo il dispendio economico di grande quantità di standard e di solvente, spesso (soprattutto il primo) estremamente costoso e difficile da reperire in grandi quantità; in secondo luogo la logistica ed il costo di smaltimento del rifiuto prodotto, perché magari per l’applicazione richiesta bastavano poche gocce di soluzione diluita a 50 mg/100ml mentre per le suddette necessità di ne abbiamo dovuti preparare vari litri; in ultimo, la necessità di poter disporre di contenitori di grande capacità, la cui gestione e pulizia potrebbe non risultare così immediata in un laboratorio chimico abituato a ragionare in termini di matracci e provette.   Questo approccio tuttavia avrebbe il vantaggio di effettuare una pesata unica e per di più di una quantità di prodotto non pericolosamente al limite della capacità risolutiva della bilancia stessa.

L’altro approccio consiste invece nel preparare una soluzione più concentrata (master o maestro), che sarà poi utilizzata a sua volta per la preparazione della (o delle) soluzione più diluite, tramite un’ulteriore operazione di pesata e diluizione.   Ragioniamo una volta tanto in termini di molarità e pensiamo di dover preparare un set di 5 soluzioni a diversa concentrazione di RbCl (rubidio cloruro):  100mM; 10mM; 1mM; 0.1mM e 0.01mM.   La prima cosa che verrebbe in mente è preparare la prima, quindi diluirla di 10 volte (ovvero al 10%) in peso ed ottenere la seconda, quindi in sequenza diluire al 10% la seconda per ottenere la terza, e così via.   Facendo così tuttavia l’approssimazione, ovvero l’errore, associato a ciascuna pesata e quindi a ciascuna preparazione, non solo di sommerebbe nel corso dei 5 passaggi necessari per arrivare fino alla concentrazione di 0.01mM ma, dal punto di vista matematico, si tratterebbe addirittura di una moltiplicazione!   La soluzione migliore consisterà probabilmente nel preparare la prima soluzione 100mM e di procedere da questa non con diluizioni in cascata (anche dette “in serie”), ma con diluizioni parallele fra loro: diluizione al 10% per ottenere la concentrazione di 10mM, dell’1% per ottenere quella di 1mM, dello 0.1% (ovvero 1 g di master per 1000 g di soluzione diluita), ed infine 0.01% per ottenere la soluzione 0.1mM.   Per preparare l’ultima soluzione, la più diluita, ovvero il RbCl 0.01mM potrebbe essere il caso, vista la ridotta entità della pesata di master in gioco, di procedere comunque da una delle soluzioni a diluizione intermedia già preparate, ad esempio da quella 1mM, che dovrà in questo modo essere ragionevolmente diluita all’1%.   In questo modo la prima soluzione (100mM) risentirà solo dell’errore della pesata iniziale, quelle intermedie di 10mM, 1mM e 0.1mM risentiranno di questa più l’errore di diluizione, e la più diluita, 0.01mM risentirà del prodotto complessivo di tre errori invece di quello dei 5 errori che avrebbe subito nel caso delle diluizioni in cascata.
Anche nel corso delle operazioni di diluizione a partire da una soluzione master più concentrata la questione del rispetto delle cifre significative nell’espressione del valore della concentrazione gioca il suo ruolo.   Se la soluzione di partenza era al 2.5% e la diluiamo 10 volte, quella che otterremo sarà allo 0.25%, o se l’avessimo diluita di 100 volte sarebbe allo 0.025%

NON PERDERE MATERIALE STRADA FACENDO

 

Una delle difficoltà più insidiose alle quali l’operatore deve far fronte in sede di preparazioni è quello di assicurarsi del trasferimento completo della sostanze che sta manipolando.

Il materiale, specie se solido, una volta pesato può infatti non sciogliersi perfettamente o rapidamente nel solvente che gli viene aggiunto, e se la quantità di materiale è molto ridotta (ad esempio pochi granelli) può risultare davvero difficile accertarsi a vista del fatto che la dissoluzione sia di fatto completa.  Se non lo fosse, quando successivamente preleverò una porzione di soluzione dal contenitore, questa sarà ad una concentrazione minore di quella che ci saremmo aspettati.

Problema analogo lo abbiamo relativamente all’adesività della sostanze alle pareti dei contenitori nei quali sono posti, per esempio in sede di pesata (es. matracci, bicchierini, capsule, ecc): inutile annotare scrupolosamente la quantità esatta di una sostanza pesata e fare calcoli e proporzioni sulla base di questo valore, se poi una quantità della stessa non si staccherà dal contenitore di pesata e non entrerà quindi a far parte della soluzione o comunque della preparazione che stiamo allestendo!
Il consiglio pratico in questo caso è di impiegare alcune piccole dosi del solvente richiesto per la diluizione della sostanza, per “pulire” il contenitore stesso di pesata.   Nel caso della preparazione di 1 kg di soluzione acquosa alla concentrazione di 5 g/kg di K, ad esempio, dopo aver pesato la quantità reale di K e trovato il peso reale al quale portare la soluzione (vedi capitolo precedente), potremmo iniziare a mettere sulla bilancia in contentore più grande (es. una bottiglia), destinato a raccogliere il “circa” 1 kg di soluzione acquosa, fare la tara, dopo di che scaricare meglio che possiamo la quantità pesata di K in questa bottiglia.  Prendiamo poi una piccola porzione di acqua, ad es. 100 g ed introduciamola nel contenitore di pesata ancora un po’ sporco sulle pareti di K, muoviamolo o agitiamolo un po’, quindi scarichiamo il suo contenuto nella bottiglia si raccolta della soluzione.  Risciaquiamolo ancora una seconda o magari diverse altro volte con nuova acqua, e scarichiamo sempre la soluzione ottenuta nella bottiglia di raccolta, facendo estrema attenzione a non sgocciolare nulla della soluzione di lavaggio durante i trasferimenti: dopo un paio di questi lavaggi, il contenitore di pesata di K dovrebbe risultare completamente pulito, tutto K sarà passato nella bottiglia di raccolta e, leggendo il peso sulla bilancia, ci renderemo conto di come il peso della soluzione abbia iniziato ad avvicinarsi al 1000 g richiesti dalla preparazione.   A questo punto aggiungiamo la quantità di acqua necessaria alla preparazione complessiva, ovvero “portiamo a peso” di 1000 g, o comunque della quantità che avevamo precedentemente calcolato.
Un accorgimento per facilitare una più veloce solubilizzazione dei materiali solidi polverulenti a partire dal contenitore iniziale di pesata è quello di non impiegare subito una grande quantità di solvente di solvente, ma di aggiungere questo in piccole dosi, sciogliere meglio possibile la quota di polvere che riesce a sciogliersi, scaricare la soluzione ottenuta (se questa dovesse trasportarsi nella bottiglia di raccolta parte di materiale indisciolto nessun problema, in quanto si scioglierà poi proprio in questo contenitore), quindi procedere con una seconda ed eventualmente una terza pulizia del contenitore di pesata.   L’aggiunta di acqua al contenitore di pesata, specie se effettuata con sistemi un minimo pressurizzati come può essere una semplice spruzzetta da laboratorio, può anche aiutare il distacco meccanico del prodotto solido dalla pareti del contenitore.
Casi ancora più subdoli si possono incontrare invece nel caso di prodotti, specie se liquidi, che tendono ad aderire alle pareti del contenitore o, molto più frequente, che galleggiano al di sopra del nostro solvente.   Nel caso in cui necessitasse sciogliere piccole quantità di un liquido poco miscibile e più leggere del suo solvente (es. poche gocce di un olio essenziale in una grande quantità di acqua), l’aliquota di soluto eccedente al limite di solubilità galleggerebbe allo stato puro sulla superficie della soluzione, non risultando neanche facilmente individuabile confondendosi con lo spessore del menisco del liquido nel contenitore.  Oltre ad abbassare la concentrazione di materiale in soluzione, questo inconveniente comporta il fatto che proprio sulla superficie del liquido permanga un velo di sostanza pressoché pura: questa è la ragione per la quale se mettiamo qualche goccia di olio essenziale in un bicchiere d’acqua e poi beviamo il tutto, rischiamo di bruciarci la gola avendo bevuto di fatto prima gocce di olio essenziale puro (galleggianti), seguite da un bicchiere di acqua pura.   Anche immergendo un contagocce in questo contenitore e pipettando un po’ di liquido da esso, il contagocce con tutta probabilità tirerà su una soluzione molto diluita dal “cuore” del contenitore, ma resterà contaminato sulle pareti di olio essenziale puro avendo dovuto attraversare, per entrare ed uscire dalla soluzione, attraverso il sottile strato galleggiante di questa sostanza pura.   In questo caso può tornare utile tappare accuratamente in contenitore, quindi scuoterlo energeticamente ed osservare se qualche minuta gocciolina in questo modo dispersa risale più o meno rapidamente alla superficie: se si dimostra così la non completa solubilizzazione del liquido più leggero, si può introdurre ulteriore solvente allo scopo di completare la solubilizzazione del materiale indisicolto (ottenendo però in questo modo una soluzione più diluita) o in alternativa separare la parte “surnatante” (letteralmente “che nuota sopra”) della miscela tramite un imbuto separatore.

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