Quella della trasformazione della ghisa in acciaio può essere considerata un’impresa di grande portata, forse al pari di quella della conquista della luna, luogo dove, indirettamente, l’uomo è stato portato dall’acciaio: cioè un grande passo per lo sviluppo tecnologico dell’umanità!
Che cosa sia, per definizione, l’acciaio lo indica chiaramente la normativa UNI EN 10020, dove si legge: “Si chiama acciaio un materiale in cui il ferro è l’elemento predominante, in cui il tenore di carbonio è di regola minore del 2 % e che contiene altri elementi. … Tale valore del 2 % è il tenore limite corrente che separa l’acciaio dalla ghisa”. Cioè bisogna trovare il modo di ridurre il tenore di carbonio della ghisa fino ai valori tipici dell’acciaio; meglio se con tale operazione si eliminano anche gli elementi inquinanti già presenti senza aggiungerne altri.
Il problema sembra di facile soluzione, in quanto basta scambiare la funzione degli elementi chimici: se il carbonio viene usato come riducente, per togliere ossigeno agli ossidi, si ottiene la ghisa; se si usa ossigeno per “bruciare “ il carbonio in eccesso, la ghisa diventa acciaio! Si tratta di trovare un modo facile e conveniente per fornire l’ossigeno necessario per bruciare il carbonio in eccesso. Perché non usare gli ossidi di ferro? La paternità di questa idea pare sia da attribuire a Benjamin Huntsman, un orologiaio di Sheffield che cercava un materiale per costruire molle e coltelli.
Nella prima metà del XVIII sec. erano ancora attivi i bassiforni, dove si producevano piccole quantità di ferro quasi puro (per riduzione in fase solida) assieme a ghisa liquida. In un crogiolo ceramico riscaldato dall’esterno con carbone fossile e con l’aiuto di mantici, Huntsman cercò di fondere assieme questi due prodotti aggiunti di una piccola quantità di carbone di legna. Quando il crogiolo era molto caldo (al calor bianco) si buttava al suo interno scaglie di materiale ferroso arrugginito e si sigillava con un coperchio ceramico. La carica fondeva e, continuando il riscaldamento per alcune ore, si otteneva un acciaio ad alto tenore di carbonio che allo stato solido era particolarmente duro. Per fabbricare coltelli questo acciaio doveva essere colato in stampi opportuni e poi subire l’affilatura: questa procedura non ebbe successo presso gli artigiani di Sheffield, i quali operavano in altro modo, cioè ottenevano la forma del coltello per forgiatura (serviva un metallo tenero) e poi indurivano per carbocementazione (cioè facendo diffondere carbonio o altro nel metallo). Si sa che il processo di Huntsman ebbe il successo che meritava presso i coltellinai francesi che a fine ‘700 invasero l’Europa con le loro lame.
Già allora si evidenziava quello che sarebbe stato il problema principale della siderurgia: produrre il massimo con il minimo impiego di energia. Il processo Huntsman, lungo e poco produttivo, rimase per qualche decennio l’unica possibilità per produrre discrete quantità di acciaio. Fu soppiantato da un procedimento assai più evoluto tecnologicamente, noto come “puddellaggio” (da: to puddle = rimescolare). Il puddellaggio è figlio dell’invenzione del forno a riverbero attribuita a Henry Cort, il cui brevetto è del 1784.
Il forno a riverbero è un piccolo gioiello di ingegneria. Alimentato a carbone fossile e aria, nella camera di combustione si genera una fiamma ossidante che lambisce la volta del laboratorio e fonde quanto in esso contenuto. La circolazione dei gas caldi è garantita dal tiraggio del camino. In questo modo la carica non è mai in contatto col combustibile. Nel caso del puddellaggio il laboratorio del forno contiene la ghisa liquida a cui si aggiungono scorie e prodotti arrugginiti (ossidati). Per reazione con l’ossigeno degli ossidi aggiunti, gran parte del carbonio della ghisa viene eliminato e dal bagno in ebollizione si origina una caratteristica fiamma azzurrognola dovuta alla combustione dell’ossido di carbonio CO a diossido di carbonio CO2. Ma con l’eliminazione del carbonio la temperatura di fusione aumenta ed il bagno diventa pastoso: per favorire le reazioni chimiche è necessario mantenere agitato il bagno, cioè puddellare (rimescolare), operazione eseguita con utensili di ferro quasi puro ad alto punto di fusione. Il prodotto finale è un acciaio a basso tenore di carbonio.
Il forno a riverbero ha indiscutibili vantaggi quali l’incremento della produzione, l’eliminazione di sistemi di soffiaggio (mantici), il basso tasso di inquinamento dell’acciaio. Se ci si astiene nel giudicare la pericolosità dell’operazione di puddellaggio, rimane comunque un problema importante: per fare funzionare il forno serve il combustibile, cioè bisogna fornire energia. Inoltre con l’avvento dell’altoforno la quantità di ghisa da trattare aumenta talmente che il forno a riverbero non è più in grado di soddisfare le richieste di acciaio: bisogna inventare qualcosa d’altro! E qui entra in gioco un altro personaggio che ha fatto la storia della siderurgia: Henry Bessemer.
Prima di essere un metallurgista Bessemer fu un ricercatore: sperimentava metodi per ottenere prodotti di alta qualità, soprattutto relativamente alle loro caratteristiche meccaniche, partendo da ghisa liquida. I suoi esperimenti consistevano nel versare, entro un crogiolo d’argilla riscaldato esternamente, la ghisa liquida su prodotti solidi a cui attribuiva un’azione ossidante in grado di bruciare l’eccesso di carbonio. Potrebbe essere andata così: per raffreddare il bagno metallico una volta utilizzò un getto di aria compressa, facendolo gorgogliare nel liquido. Grande sorpresa: pur essendo fredda, l’aria produceva un forte riscaldamento della ghisa, con sviluppo di fiamme, tanto da rendere inutile qualsiasi riscaldamento esterno! Da ciò Bessemer sviluppò l’idea del convertitore, cioè di un reattore termicamente autogeno, che non ha bisogno di fonti di calore esterne in quanto quello necessario viene fornito da reazioni chimiche esotermiche. La data di nascita del convertitore è 14 agosto 1856, quando Bessemer pubblicò i suoi dati sul quotidiano The Times.
Si suole dire che il convertitore ha una forma detta a pera e che può ruotare su se stesso; è fabbricato in acciaio ed è rivestito internamente da refrattario. Il convertitore è dotato di una suola forata e da lì viene soffiata aria. Con la suola in alto si può immettere nel convertitore la ghisa liquida, proveniente dall’altoforno. Poi si ruota il convertitore iniziando il soffiaggio: in posizione verticale il convertitore è percorso dal flusso di aria e dalla sua bocca escono fiamme. A fine conversione, una nuova rotazione verso il basso permette lo svuotamento.
In Italia il primo convertitore Bessemer fu installato nel 1865 nelle “Officine Perseveranza” di Piombino ma funzionò soltanto due anni.
Se il convertitore Bessemer è stata una invenzione fondamentale per la siderurgia, perché ha avuto vita breve? Ovviamente perché aveva dei problemi di funzionamento: non permettendo l’eliminazione di zolfo e fosforo presenti nella ghisa produceva acciai di bassa qualità! La limitazione del convertitore Bessemer era nella composizione chimica della ghisa di partenza che doveva essere ricca di silicio, elemento la cui ossidazione secondo la classica reazione fortemente esotermica:
Si + O2 → SiO2 – 217.5 Kcal
forniva il calore necessario (fino a oltre 1600 °C) e rendeva il sistema autogeno. Le ghise inglesi, ricche di silicio, risultavano particolarmente adatte alla conversione Bessemer. Ma l’ossidazione a SiO2 (silice), pur producendo gran parte del calore necessario, generava sul bagno di acciaio fuso una scoria “acida”, compatibile solo con un rivestimento refrattario anch’esso acido: un refrattario “basico” sarebbe stato praticamente disciolto dalla silice. Quindi il Bessemer usava un refrattario quarzoso, cioè a base di silice. In questo modo veniva assolutamente limitata la qualità del prodotto finale perché durante la conversione era impossibile eliminare elementi inquinanti come zolfo e fosforo. Le ghise tedesche, particolarmente ricche di fosforo, erano quindi inadatte al convertitore Bessemer.
La soluzione del problema si deve al londinese Sidney Gilchrist Thomas, altro personaggio fondamentale per la siderurgia. Pare che un docente universitario, di cui il giovane Thomas seguiva le lezioni per cultura personale e senza essere iscritto all’Università, avesse proposto agli studenti il compito di trovare il modo per eliminare il fosforo dalla ghisa. Nel maggio del 1878 egli presentò il primo brevetto sull’argomento: si trattava semplicemente di sostituire il rivestimento quarzoso e acido del Bessemer con uno basico a base di dolomite. Però non può più essere il silicio a fornire il calore necessario alla conversione: l’elemento termogeno è proprio il fosforo secondo la reazione fortemente esotermica:
1/2 P4 + 5/2 O2 → P2O5
Si genera pentossido di fosforo P2O5 che viene poi bloccato da una scoria basica per CaO e compatibile col refrattario del rivestimento a base di CaCO3
3 CaO + P2O5 → (CaO)3.P2O5
Il convertitore Thomas, oltre ad usare minerali che contengono fosforiti, molto frequenti in Germania meno in Inghilterra, permette anche di utilizzare le scorie che, contenendo fosfato calcico Ca3(PO4)2, possono essere usate come fertilizzante. Di contro, le ghise devono contenere molto P, da 1.5 a 2 %: spesso nella carica è necessario aggiungere fosforiti! I convertitori Thomas hanno subito vari miglioramenti e sono rimasti in funzione fino verso il 1950.
Il dopo Thomas in siderurgia deve essere inteso come l’insieme dei tentativi indirizzati a migliorare la qualità finale del prodotto e a ridurre il consumo energetico: per tentare di raggiungere tali obiettivi è stato necessario ricercare l’esatta combinazione fra concetti chimici, ingegneristici, economici ed energetici. Ad esempio, attualmente i convertitori sfruttano il processo L.D., brevettato nel 1948 dall’ingegnere svizzero Robert Durrer, dove le lettere stanno per “Linz – Donawitz”, i nomi di due città austriache sedi di rinomate acciaierie.
La differenza sostanziale rispetto al Thomas è il fatto che viene impiegato, al posto dell’aria, ossigeno quasi puro (da distillazione dell’aria). Il vantaggio immediato è che si evita di riscaldare quel 75% di aria che non è ossigeno e non serve alla conversione. Inoltre viene evitato quasi totalmente l’inquinamento da azoto del acciaio. Nei convertitori L.D. non c’è più la suola forata e l’ossigeno viene immesso nel bagno da convertire tramite una “lancia”, praticamente un tubo con rivestimento esterno ceramico che viene immerso nel bagno fuso: in questo modo si possono iniettare anche opportune sostanze per migliorare la qualità del prodotto finale, oppure arricchire l’ossigeno con combustibili gassosi per fondere una parte di rottami.
Un’idea che difficilmente raggiungerà la fase di realizzazione è quella del convertitore orizzontale. Dalla bocca dei convertitori escono gas caldi in cui è presente una elevata quantità di CO che a contatto con l’aria brucia a CO2 con forte sviluppo di calore: se il convertitore fosse orizzontale la reazione avverrebbe al suo interno e il calore potrebbe essere utilizzato. In laboratorio sono stati sviluppati alcuni prototipi di convertitori orizzontali, non funzionanti perché il rivestimento interno di refrattario tende a fondere. Nel prototipo ROTOR si è cercato inutilmente di sfruttare l’azione refrigerante del bagno fuso facendo ruotare il convertitore sul suo asse orizzontale, ma i materiali dei meccanismi rotanti non resistevano alle sollecitazioni termiche e meccaniche!
In siderurgia c’era un problema che, presente fin dall’epoca del Bessemer, diventava sempre più assillante con lo sviluppo della tecnologia: nelle acciaierie si stavano accumulando grandi quantità di rottami ferrosi ed era necessario trovare il modo di riutilizzarli! Perché c’erano (e ci sono) grandi quantità di rottame? Oltre a quello di ritorno, ad esempio macchinari dismessi (si pensi alla rottamazione delle auto) oppure sfridi da lavorazione, la stessa acciaieria produce rottami. Infatti, terminata la conversione da ghisa ad acciaio, il bagno fuso viene colato in lingottiere ove si ha la solidificazione.
La lingottiera è un recipiente cavo troncoconico e a fine solidificazione il lingotto che si ottiene spesso è molto simile ad una colonna di epoca greca o romana. Il suo peso è spesso superiore a 100 tonnellate. Ci si accorse ben presto che di questo lingotto la parte buona era quella centrale, la più esente da difettosità e da inclusioni non metalliche. Cioè, come nella distillazione della grappa, bisognava eliminare sia la testa che la coda, che erano le parti del lingotto più sporche! Quindi si producono rottami. Ma per riutilizzare i rottami bisogna rifonderli, e questo costa molta energia.
Idea: spesso i rottami sono materiali ferrosi ossidati, cioè fornitori di ossigeno; quindi perché non usarli per trasformare la ghisa in acciaio? Il padre di questa idea fu l’ingegnere francese Pierre Emile Martin, che tentava di rifondere i rottami del processo Bessemer, e, come classico esempio di sinergia industriale, l’idea si concretizzò nel 1865 con l’abbinamento ad un particolare tipo di forno messo a punto dall’ingegnere tedesco naturalizzato britannico Carl Wilhelm Siemens (o anche Sir William Siemens). Siemens voleva porsi in concorrenza a Bessemer per la trasformazione della ghisa in acciaio.
A questo scopo aveva progettato un forno, quindi un sistema non autogeno alimentato a gas e aria, dove la vera innovazione era il particolare modo di recupero del calore: i gas combusti passavano entro camere piene di refrattario i quali si riscaldavano; poi, invertendo il ciclo, sui refrattari passavano l’aria e il gas di alimentazione che si preriscaldavano prima di entrare nel forno, con notevole vantaggio termico. Però anche così non si raggiungevano temperature abbastanza alte per produrre l’acciaio, perché il forno era alimentato soltanto con ghisa liquida. Ma se si mescola alla ghisa liquida una piccola quantità di rottame ossidato (idea Martin) si sviluppano reazioni chimiche esotermiche che forniscono il calore per la rifusione e la decarburazione della ghisa: in un sol colpo venivano raggiunti due risultati!
Due parole sulle modalità di funzionamento del forno Martin-Siemens. Era come un forno a riverbero molto grande dove il laboratorio, lungo fino a 100 m, era poco profondo ed in leggera pendenza. Dalla parte più alta entravano nel forno ghisa liquida e rottami di ferro in proporzione prestabilita. In controcorrente con la carica, la volta del forno era lambita da una fiamma generata da un flusso di gas proveniente da un gasogeno. Il gasogeno era un forno in cui una pigiata di carbone veniva bruciata in difetto di aria: il gas in uscita era costituito da molto CO, monossido di carbonio, che a contatto con aria bruciava a CO2 con notevole sviluppo di calore.
Se tutto era esattamente calcolato, la carica fondeva completamente e le reazioni chimiche che si attivavano trasformavano la ghisa in acciaio, il quale veniva estratto dalla parte bassa del forno. L’intera operazione durava circa 10 ore. Modifiche alla versione originale portarono ad una diminuzione dei tempi e ad un incremento della produttività, ma i forni Martin-Siemens diventarono obsoleti quando si trovarono altri modi per utilizzare i rottami. In Italia l’ultimo Martin-Siemens fu spento nel 1950.
L’altro modo per rifondere rottami e produrre acciaio impiega, come fonte di calore, l’energia elettrica. Fondamentale è il fatto che l’energia elettrica funziona solo come generatrice di calore, senza agire direttamente sulla chimica del sistema: quindi è l’ottimo per la siderurgia. I vantaggi sono molteplici: il forno può funzionare anche soltanto a rottame; la velocità di riscaldamento è elevata e si possono raggiungere temperature molto alte; non ci sono reazioni chimiche dovute al sistema di riscaldamento che risulta molto pulito; non ci sono restrizioni per il tipo di forno, che può essere acido, basico o anche neutro, e può lavorare in ambiente controllato, addirittura sotto vuoto. Se si prescinde da problemi economici dovuti al suo alto costo, con l’energia elettrica si possono produrre acciai al massimo grado qualitativo!
Nel forno elettrico l’effetto termico si genera o per un arco che scocca fra gli elettrodi (riscaldamento per solo irraggiamento) o fra gli elettrodi e la carica metallica (riscaldamento diretto). Gli elettrodi sono di grafite. Anche se i primi tentativi di realizzazione sono attribuiti allo stesso Siemens (circa 1878), in Europa l’inventore forno elettrico per impieghi metallurgici viene ritenuto il francese Paul Hèroult, il quale fra il 1880 e 1890 ricercava un metodo per produrre industrialmente l’alluminio, metodo che fu brevettato nel 1886 in contemporanea ma non in collaborazione con lo statunitense Charles Martin Hall, (ma questa è un’altra storia che forse verrà raccontata in altra occasione). Il metodo prevede l’impiego di un forno ad arco elettrico. Lo stesso Hèroult verso il 1900 modificò il forno per adattarlo ad impieghi siderurgici.
Perciò nel 1898 modificò uno dei suoi forni indirizzandolo alla produzione siderurgica. Il forno Stassano fu il primo forno elettrico a camera chiusa, dove non c’è contatto con l’aria. La carica del forno era costituita da rottame (80%) e ghisa (20%) e produceva acciaio di alta qualità. Fino al 1910 furono installati in Europa circa una decina di forni Stassano, ma la storia racconta che poiché il forno Hèroult risultò molto più produttivo, dal 1915 cominciò il loro lento declino.
Comunque i forni elettrici hanno subito modifiche e adeguamenti tali da originare la “siderurgia secondaria”, cioè prevalentemente da rottame, in parallelo alla “siderurgia a ciclo integrale”, cioè da minerale. Si ricorda che in Italia, a fianco di 3-4 unità operative a ciclo integrale, funzionanti con vicende altalenanti, esiste una settantina di acciaierie elettriche che producono acciai speciali e di qualità. Prima della recente crisi industriale, il loro numero si avvicinava a 150: molte hanno smesso la produzione, altre si sono accorpate per aumentare la loro massa critica.
Per giustificare l’impiego di energia preziosa e costosa, le acciaierie elettriche sono destinate alla produzione di acciai speciali. L’aggettivo “speciale” indica, fra l’altro, un elevato grado qualitativo, raggiungibile tramite la quasi completa eliminazione degli elementi chimici inquinanti e delle inclusioni non metalliche in grado di minare le caratteristiche del prodotto. Oltre a P e S, fra questi agenti deleteri si inseriscono i gas biatomici, cioè ossigeno, azoto e idrogeno, e composti chimici come solfuri, ossidi e nitruri: le tecniche per la loro eliminazione sono all’origine dell’attuale sviluppo della siderurgia elettrica.