Perché ci appare azzurro, almeno nelle giornate limpide e guardando verso l’alto – come dicono gli astronomi “a mezzogiorno” – e non bianco come si dice che sia la luce del sole, notoriamente composta da una miscela di tutti i colori?
Ma le domande non finiscono qui: perché al tramonto e all’alba esso ci appare di colori diversi, che possono andare dal giallo al rosso? E perché le nuvole sono di solito bianche? Ed infine, se vi dicessi che in realtà il cielo al quale siete abituati, lo stesso che vi stava indicando il vostro bambino, non è azzurro ma viola?
Alla base della risposta a tutte queste domande vi è uno, o meglio “una classe” di fenomeni fisici accomunati dal fatto che comportano una deflessione, ovvero un cambiamento nella traiettoria della luce, quando questa incontra lungo il suo cammino delle particelle microscopiche con le quali non ha un rapporto diretto di scambio di energia.
A differenza dei casi di assorbimento (con cessione energetica) o di riflessione in una direzione ben precisa da parte di un’ampia superficie piana, la diffusione della luce avviene un po’ in tutte le direzioni dello spazio intorno a particelle di materia di dimensioni inferiori alla sua lunghezza d’onda, rappresentate pertanto nei diagrammi come delle realtà puntiformi.
Il fenomeno non cambia in modo determinante a seconda si consideri la luce nella sua natura ondulatoria oppure corpuscolare oppure, cambiando il modo di affettare il problema, a seconda che lo si voglia interpretare secondo le regole della meccanica classica o di quella quantistica. Lo stesso fisico britannico John William Strutt Rayleigh (1842–1919), premio Nobel per la chimica nel 1904, arrivò alla comprensione del fenomeno utilizzando le sole cognizioni della meccanica tradizionale. Questa specifica tipologia di diffusione delle onde elettromagnetiche, la stessa per intenderci che ha luogo quando la luce del sole incontra le particelle di azoto dell’atmosfera, sicuramente le particelle di materia, seppur gassosa, di gran lunga più abbondanti nell’atmosfera terrestre, prende perciò il nome del grande fisico e chimico britannico.
Avendo dunque introdotto il concetto di diffusione di Rayleigh, possiamo provare ad addentrarci negli aspetti “quantitativi” del fenomeno, allo scopo di individuare quali particelle diffondono di più (attraverso l’espressione del coefficiente di diffusione), sia gli angoli di diffusione dei raggi emessi rispetto a quello incidente.
Abbiamo così modo di verificare come l’entità della diffusione dipenda il modo solo minimo dalla natura chimica delle particelle che la luce incontra (è l’indice d rifrazione, m, che risulta specifico della sostanza della quale sono fatte le particelle), ma piuttosto dal loro diametro, d, espresso ben alla quinta potenza, quindi con un peso davvero non indifferente nel determinare il valore del coefficiente di diffusione. Com’è intuibile, anche il numero (n) di particelle che la luce incontra risulta un fattore direttamente proporzionale all’entità della sua diffusione.
Come lo stesso coefficiente, anche l’intensità delle diverse direzioni della luce diffusa dipende da una moltitudine di fattori, descritti nel dettaglio dall’equazione di Rayleigh ma, a parità di tutti gli altri, dipende in ultima analisi dalla lunghezza d’onda (λ) che troviamo appunto ad denominatore dell’equazione.
La dipendenza è di tipo inverso, ovvero più la lunghezza d’onda è grande, più l’intensità della luce a quella lunghezza d’onda è bassa, è viceversa. Questo significa intensità elevate di luce diffusa per lunghezze d’onda sul lato del verde, del blu e soprattutto del viola all’interno dello spettro visibile, ed intensità minime, almeno al confronto, per la parte del rosso. L’importanza della lunghezza d’onda nel fenomeno della diffusione della luce risulterà ulteriormente evidente dal momento che si nota che il valore di λ compare addirittura alla 4° potenza nell’equazione.
Con il semplice termine di “diffusione” si intenderebbe in fisica una classe di fenomeni in realtà più ampia di quello finora descritto, tali comunque da comportare, seppur in modo diversificato, una deflessione della traiettoria di un’onda ma anche di eventuali particelle, qualora esse collidano con altre onde, oppure altre particelle. L’aspetto fondamentale al fine di distinguere la diffusione rispetto ad altri fenomeni fisici analoghi è l’elasticità dell’interazione, tale da non comportare significative cessioni o acquisizioni di energia, oltre alla più o meno totale casualità nella direzione delle molteplici traiettorie dei raggi diffusi, fattore questo che la distingue sia dalla rifrazione che dalla riflessione.
Nello specifico, la diffusione ottica comporta un’interazione tra radiazione elettromagnetica e materia, anche se di quest’ultima il fattore che risulta più determinante ai fini della spiegazione e dell’entità del fenomeno non è tanto la sua composizione chimica quanto la dimensione delle sue “particelle”, pur sempre nel range delle scale microscopiche.
Cosa ne è invece delle altre componenti dello spettro visibile del sole, quelle che per intenderci non contribuiscono “a colorare il cielo” di azzurro?
Semplicemente, proseguono la loro traiettoria, senza venire deviate. E dato che provengono dal sole, le vediamo solo quando ci capita (attenzione, con tutte le precauzioni del caso!) di guardare il sole: ed è per questo che il sole ci appare tutt’altro che azzurro ma piuttosto proprio di quei colori ad esso complementari, dal giallo all’arancio. Quelli che non sono diffusi dall’atmosfera, appunto.
Anche il colore giallo, arancio o addirittura rosso del cielo in prossimità dell’orizzonte durante l’alba e al tramonto possono essere spiegati sulla base di questo fenomeno. Attraversando tangenzialmente l’atmosfera fino ad arrivare a noi, i raggi del sole all’orizzonte incontrano un numero ben maggiore di molecole di azoto e di particelle più in generale, cosicché anche il fattore “n”, finora lasciato un po’ in disparte nella valutazione dell’entità del fenomeno del light scattering assume un valore significativo, abbastanza significativo da far sì che anche le componenti della luce visibile a maggiore lunghezza d’onda, in primo luogo quelle del giallo, possano contribuire alla luce diffusa. Al contrario, lo stesso sole e gli oggetti da esso illuminati in modo diretto appaiono prevalentemente arrossati proprio perché queste sono le sole lunghezze d’onda non diffuse lungo altri percorsi dallo spesso strato di atmosfera.
Per inciso, se ci fermiamo un istante a riflettere, di che colore vengono realizzate le luci artificiali che devono essere viste più da lontano, ad esempio per segnalare agli aerei durante il volo notturno la presenza di edifici? In rosso, ovviamente, il colore meno soggetto a light scattering nello spettro di visione dell’uomo.
Senza atmosfera il cielo apparirebbe nero ai nostri occhi ed il sole decisamente bianco. Su pianeti con atmosfere di composizione chimica diversa, fatta salva la capacità di alcune molecole di eccitarsi e quindi di assorbire alcune specifiche lunghezze d’onda della luce, talvolta restituendola ad una lunghezza d’onda maggiore, il colore azzurro tornerebbe ad essere il blu proprio per la ragione in fondo non chimica, o per lo meno non così dipendente dalla composizione specifica delle particelle diffondenti, del fenomeno di Rayleigh.
Sempre della categoria dei fenomeni di diffusione, però diverso da quello che porta il nome di Rayleigh è quello che viene chimato in causa per spiegare il colore bianco delle nuvole, almeno in condizioni di cielo sereno e non serale. Il Mie scattering (dal fisico tedesco Gustav Mie, 1869-1957) ha luogo quando le particelle incontrate dalla luce hanno forma all’incirca sferica e di dimensioni paragonabili con la lunghezza d’onda della luce medesima. Se queste condizioni almeno in una certa misura si realizzano, ecco che la luce viene diffusa, oltre che in tutte le direzioni, anche in tutte le sue lunghezze d’onda, mantenendo per così dire invariata la sua composizione spettrale, nel caso della luce solare il bianco.
Infine affrontiamo l’ultima questione, lanciata a ‘mo di provocazione fin dalla premessa di questo articolo. Il cielo che vediamo azzurro, in realtà dovrebbe essere viola. Dovrebbe essere viola perché è questo il colore, e non l’azzurro (o il blu) il colore dalla lunghezza d’onda più piccola tra quelli dello spettro della luce visibile del sole.
Le ragioni per le quali lo vediamo invece blu sono almeno due, distinte: una che dipende dal sole, l’altra da noi. Se si torna alla curva di distribuzione delle componenti spettrali del sole, in pratica quella che ci fa vedere com’è tagliato l’arcobaleno dei colori in esso contenuto, ci accorgiamo che non tutti i colori sono contenuti con la stessa intensità. Detto in termini molto concreti, nella luce del sole di viola ce n’è poco, almeno rispetto al blu. Il fattore umano dipende invece dalla minore sensibilità al viola dei fotorecettori della retina del nostro occhio, che penalizza ulteriormente la capacità di percepire quel poco viola che viene diffuso dall’atmosfera. Di conseguenza quello che percepiamo è soprattutto la fascia di lunghezza d’onda subito maggiori del viola, che vengono diffuse anch’esse in tutte le direzioni dalle molecole di azoto, seppur con efficienza inferiore: quelle del blu. A schiarirlo adeguatamente, fino a portarlo a quell’azzurro talvolta molto tenue al quale siamo solitamente abituati, concorrono tutte quelle particelle, di acqua in primo luogo, che stanno sospese nel cielo e che hanno tanto più possibilità di intercettare i raggi del sole quanto più stiamo in basso, in pianura, ad osservare il cielo.