Ma cosa intendiamo in fondo per pulito? Privo di odori, di macchie visibili, di germi patogeni? Certamente sì, ma a taluni questo probabilmente non basta.
Specie quando si tratta di biancheria, la corsa verso il bianco assoluto a tutti i costi ha da tempo sfondato anche la barriera del bianco assoluto, per sconfinare… nel più bianco del bianco! Quando un tessuto è intrinsecamente composto da fibre che per la loro natura, oltre che per i coloranti utilizzati dal produttore o “rimasti” dopo i lavaggi, bianco puro e perfetta pulizia possono divenire concetti via via divergenti. Vittime inconsapevoli di un retaggio culturale che identificava solo nel candore del bianco la pulizia di un capo, finiamo ora per ricercare biancori sempre più abbacinanti, senza fare troppo caso al fatto che anche la meno sbiancata delle nostre lenzuola bianche è probabilmente già più bianca delle migliori lenzuola delle nostre nonne, in ragione di un’evoluzione nei tessuti, nei processi di sbianca da parte del produttore, dei sistemi di lavaggio meccanizzati in lavatrice ed in ultimo anche dei detersivi e candeggianti disponibili.
Quando tutto questo ancora non basta, possiamo però sempre decidere di rendere i nostri capi non soltanto bianchi ma… luminosi!
Come molti sapranno, la percezione del bianco deriva da una riflessione totale della luce che incide su una superficie, in tutte le sue componenti cromatiche: non per niente ci viene insegnato che il bianco è la sommatoria di tutti i colori (almeno in un sistema additivo, come quello costituito dalle luci).
Qualsiasi lunghezza d’onda assorbita dalla superficie, in questo caso dal tessuto, determina una qualche colorazione, complementare alla lunghezza d’onda assorbita: se un tessuto per ragioni di sporcizia o della sua natura intrinseca trattiene un po’ della radiazione blu-viola della luce solare, ecco che ai nostri occhi apparirà giallastro. Questo esempio non è scelto a caso: essendo proprio la radiazione blu-viola, la più energetica dello spettro di emissione solare nel visibile, finisce che essa diventa anche la più comunemente assorbita da parte della maggior parte delle molecole organiche per poco che esse siano in grado di interagire con la radiazione visibile. In ultima analisi ne risulta che il colore più comunemente associato ad un capo di biancheria non del tutto pulito sia proprio il giallino.
Nello spettro della radiazione solare (ed anche in quello di alcune, ma solo alcune, lampade per illuminazione artificiale) sono però contenute altre porzioni di radiazione elettromagnetica non visibile dall’occhio umano: i raggi infrarossi (implicati come noto nei fenomeni di riscaldamento per irraggiamento) ed i raggi ultravioletti, noti a tutti noi per il loro effetto abbronzante sulla nostra pelle.
I raggi UV (lunghezza d’onda da 10 a 380 nm) risultano essere più energetici rispetto alla porzione visibile dello spettro elettromagnetico ed interagiscono molto più facilmente con un numero maggiore di molecole organiche. Alcune di queste, in funzione di alcune loro peculiarità nella struttura molecolare, sono in grado non soltanto di assorbire questa radiazione UV, ma di restituirla una frazione di secondo dopo, un lasso di tempo per noi impercepibile, sotto forma di emissione da parte della molecola stessa di una radiazione elettromagnetica leggermente meno energetica, quindi a lunghezza d’onda maggiore. Se questa lunghezza d’onda di emissione cade nel range dei 380-750 nm della radiazione visibile, la molecola (i materiali o i tessuti sui quali è applicata la sostanza che corrisponde a questa molecola) apparirà luminosa, o almeno “più luminosa” dell’ambiente circostante, per la semplice ragione che assorbe una radiazione che tanto non riusciamo a vedere, per restituirne una per noi visibile. Bilancio totale di luminosità: positivo! In pratica il materiale stesso trattato si comporta in questo modo come una sorgente luminosa. Semplificando con una battuta, più bianco del bianco può esserci solo il luminoso.
Il fenomeno che sta alla base di tutto questo è semplicemente quello della fluorescenza, da molti erroneamente confusa con la fosforescenza con la quale condivide alcune ma non tutte le caratteristiche. Fluorescenza e fosforescenza sono entrambe fenomeni definiti di luminescenza radiativa, dove una molecola eccitata energeticamente in seguito all’assorbimento di una radiazione elettromagnetica ad una frequenza più alta, la restituisce in seguito a rilassamento ad una frequenza più bassa.
Mentre la fosforescenza è un fenomeno che avviene in casi molto rari e consiste nella restituzione dell’energia inizialmente captata in un lasso di tempo più lungo, che dura anche diversi minuti dopo la sospensione dell’irraggiamento iniziale (un oggetto fosforescente in una stanza oscurata appare luminoso per molto tempo dopo che la luce è stata spenta), la fluorescenza cessa in modo pressoché istantaneo (almeno per la percezione umana) al cessare dell’irraggiamento ad alta frequenza, così che nessuna luminescenza è conservata in condizioni di buio.
La fluorescenza è il fenomeno per il quale gli evidenziatori risultano così brillanti, alcuni minerali (come ad esempio la fluorite) risultano luminescenti sotto la luce di Wood (in pratica una sorgente di raggi UV) ed anche i nostri denti e guarda caso anche diversi nostri indumenti bianchi sembrano illuminarsi sotto alcune luci violacee da discoteca. Indumenti trattati o lavati con i prodotti precedentemente appena accennati, prodotti ai quali viene comunemente dato il nome di sbiancanti ottici, in inglese ”optical brightener” (OBA).
Dal momento che il colore dominante della biancheria poco pulita, come giustificato in precedenza, sarebbe per l’appunto il giallino, un’evoluzione dello sbiancante ottico potrebbe essere una molecola che invece di restituire in emissione l’intero spettro della luce visibile (con risultante bianca), restituisca una prevalenza di componente spettrale azzurrina (420-470 nm), tale non soltanto da rendere più luminoso il tessuto ma da “coprire” la percezione del suo eventuale giallo. Da qui il nome di “azzurranti ottici” che alcune di queste molecole hanno assunto nella pratica commerciale.
Sebbene non sia argomento di questo blog affrontare la spiegazione della fluorescenza come processo in sé, affondando questo le sue motivazioni nell’ambito della fisica quantistica dell’atomo e della molecola, possiamo tuttavia descrivere e ragionare in modo molto stimolante sulle caratteristiche che dovrebbe avere una molecola per risultare fluorescente, traendo poi da questa descrizione una serie di considerazioni anche applicative.
Una molecola organica fluorescente deve innanzitutto contenere un sistema di doppi legami coniugati, ovvero di doppi legami (tipo C=C, C=N, C=O, C=S) che si alternano a legami semplici: anche l’anello benzenico vale, e molto, come elemento di peso da considerare nel computo dei doppi legami coniugati, condividendo con questi la disponibilità di una nuvola di elettroni detti pi-greco, dotati di particolare libertà di moviento. Questa struttura deve essere inoltre di tipo il più possibile risonante, ovvero presentare quella sorta di ambiguità o polivalenza nella posizione esatta dei doppi legami, un po’ come se questi potessero circolare liberamente e delocalizzarsi nella struttura molecolare, che di conseguenza ne risulta ulteriormente stabilizzata.
La struttura molecolare deve essere il più possibile rigida, ovvero priva almeno nel suo scheletro fondamentale di legami semplici intorno ai quali possa ruotare un blocco di molecola, e possibilmente piana, ovvero con anelli e doppi legami dello scheletro fondamentale estesi sulla superficie bidimensionale di un piano. Volendo dire ancora qualcosa in più, posso aggiungere che nel caso di presenza di anelli aromatici, ad esempio benzenici, questi dovrebbero essere fusi con altri anelli magari di tipo eterociclico (contenenti ossigeno, azoto o entrambe) o nel caso di presenza di legami anche semplici come nel caso degli stilbeni (vedi esempi che seguono) la struttura dev’essere comunque orientata in modo marcato verso la planarità, ed è questa la ragione per la quale la fluorescenza la si riscontra essenzialmente nell’isomero trans (E) piuttosto che nell’isomero cis (Z).
Il numero di molecole fluorescenti note in natura o ottenute per sintesi è pressoché indefinito e fra queste circa 400 strutture possono essere utilizzate come sbiancanti ottici; fra queste meno di 90 sono effettivamente oggetto di produzione industriale ma quelle poi di fatto rinvenibili nella maggior parte dei detersivi commerciali si possono contare sulle dita di una mano.
Oltre ad uno spettro di assorbimento e di emissione adeguato (ideale è quello azzurro), sarebbe preferibile che la molecola riuscisse a fissarsi in modo sufficiente al tessuto in modo tale da non essere integralmente rimossa durante il risciacquo, ed infine non dovrebbe presentare rischi per la salute umana, dalla tossicità acuta o cronica al rischio di dermatite allergica per contatto con i tessuti trattati.
Fra le molecole che presentano caratteristiche di fluorescenza, quindi che rispondono a tutte le caratteristiche composizionali e strutturali finora descritte, quelle maggiormente utilizzate come sbiancanti ottici appartengono solitamente ad una delle seguenti sette classi, caratterizzate da scheletri molecolari diversi, costituiti da carbonio ed idrogeno, ed eventualmente anche ossigeno ed azoto:
1) triazion-(E)stilbeni
2) cumarine
3) imidazoline
4) diazoli
5) triazoli
6) benzoxazoline
7) bifenil-(E)stilbeni
Una molecola per essere convenientemente utilizzabile come sbiancante ottico sui tessuti deve essere provvista sul suo scheletro molecolare (di per sé stesso fluorescente) di gruppi funzionali specifici, che come dei “gancetti” creino dei legami, seppur deboli, con le libre del tessuto trattato, riducendo il rischio di un totale dilavamento nella fase del risciacquo. Ad esempio in tema di cumarine una delle molecole più utilizzate è guarda caso una sostanza diffusa anche in natura, nel regno vegetale ed in particolare come suggerisce il nome nelle piante della famiglia delle obrellifere (ora classificata come Apiaceae), che comprende ad esempio ad esempio la carota, coriandolo ed angelica. L’umbelliferone corrisponde allo scheletro della coumarina con un gruppo –OH (fenolico) inserito sul carbonio che prende il 7° posto nella numerazione della molecola, ed è questo il piccolo “gancio” attraverso il quale questa molecola riesce ad ancorarsi tramite legami idrogeno alle fibre come ad esempio quelle che costituiscono il cotone che, essendo formate essenzialmente da cellulosa ed altri polisaccaridi, risultano a loro volta ricchissime di terminazioni polari –OH. Nell’ambiente basico caratteristico di moltissimi detersivi, inoltre, questo gruppo fenolico risulta dissociato e quindi ancora più reattivo e quindi efficace nel fissarsi a strutture organiche diverse nelle fibre.
Anche se come accennato l’umelliferone è diffuso in natura, risulta tuttavia più semplice ed economico ottenerlo in forma pura per sintesi chimica partendo dall’acido malico (uno degli acidi più diffusi nella frutta, come ad esempio nelle mele dalle quali prende il nome) e da un fenolo, il resorcinolo.
Nella figura che segue è mostrata una rappresentazione tridimensionale dell’umbelliferone, dove è possibile notare sia la forma piana della molecola (qui rappresentata in prospettiva) che, sull’estrema sinistra, la terminazione rossa e bianca del suddetto gruppo –OH.
L’impiego degli sbiancanti ottici tuttavia non è limitato al settore dei detersivi e/o della produzione all’origine dei tessuti: anche l’industria della carta ne fa un uso estensivo e spesso complementare con quello degli sbiancanti tradizionali che invece agiscono quasi sempre per ossidazione delle molecole organiche estranee portatrici del colore. Non a caso la valutazione delle brillantezza luminosa della carta non viene fatta in riferimento all’intero spettro della luce visibile, ma della soma emissione a 457 nm, corrispondente al colore blu della fluorescenza dei principali sbiancanti ottici utilizzati. Per contro la carta utilizzata per fabbricare le banconote non contiene sbiancanti ottici, da cui si comprende l’utilizzo delle lampade a raggi ultravioletti per verificare l’autenticità delle stesse: in caso di fluorescenza eccessiva la banconota sarà evidentemente falsa perché fabbricata con una carta contenente sbiancanti ottici.
E come prevedibile, come resistere alla tentazione di portare un “effetto luminoso” direttamente sulla pelle, attraverso l’impiego di prodotti cosmetici per capelli (effetti marcati soprattutto sulle colorazioni grigia e bionda), creme per la pelle e trucchi in polvere per gli occhi?
Per tutte le applicazioni, proprio ad iniziare da quella sui tessuti, non dobbiamo tuttavia dimenticare che la condizione indispensabile richiesta per la riuscita dell’effetto descritto è che lo spettro di emissione della sorgente di illuminazione, naturale o sintetica che sia, contenga una porzione sufficiente di raggi UV: se nel caso della luce solare questo di solito è garantito, per quanto riguarda la luce artificiale invece, specie quella prodotta con le classiche lampadine a filamento di tungsteno (in vero ormai sulla via del tramonto) questa condizione rischia di non essere molto rispettata, rischiando di conseguenza di rivelare la situazione nella quale i nostri indumenti effettivamente si trovano: probabilmente puliti, ma non così bianchi da apparire luminosi.